Correva l’anno 2011 e Giuliano Pisapia, un po’ a sorpresa, si era imposto nelle primarie milanesi per la scelta del candidato sindaco portando alla vittoria il centrosinistra contro la favorita Letizia Moratti. Ricordo le immagini di una piazza del Duomo entusiasta e colorata di arancione, quasi incredula nel festeggiare l’impresa. Era una massa popolare, altro che la sinistra della Ztl. C’erano giovani e giovanissimi, una Milano convinta che il voto avrebbe chiuso una fase durata troppo, aprendone una opposta e migliore. Stesso anno, ma qualche mese prima, un altro milanese aveva catturato i titoli dei giornali in tutt’altro ambito. Era stato Roberto Vecchioni a vincere l’edizione del Festival della canzone italiana.

Aveva portato un brano dal titolo molto sanremese (Chiamami ancora amore) e dal testo assai meno ortodosso per il sentimento prevalente nel paese. Parlava di migranti, quella canzone, di naufragi e sofferenze – «E per la barca che è volata in cielo / che i bimbi ancora stavano a giocare / che gli avrei regalato il mare intero / pur di vedermeli arrivare» – col risultato di portare un tema tra i più ostici nel gran ballo del nazional-popolare. Dunque, Sanremo e Pisapia. Cosa c’entrano? Poco o nulla, se ci si limita alle fatalità del calendario. O forse qualcosa in comune hanno avuto. Racconta Goffredo Bettini come il suo vecchio amico Gianni Borgna fosse convinto che per capire l’Italia e gli italiani bisognasse guardare sempre al palco di Sanremo. Può darsi fosse la provocazione di un cultore della materia, ma un fondo di verità doveva starci.

L’immagine mi è tornata a mente osservando le piazze di sabato, a Roma, Milano, in decine di altre città grandi, medie o piccole. Mi è venuto da pensare che la tragedia di Giulia Cecchettin, il dolore e la rabbia cumulati nel tempo di fronte a una strage consumata spesso nel silenzio colpevole di politica e istituzioni, ha scatenato una reazione dalle dimensioni impressionanti. Un moto di popolo vero, dal basso, un mondo di ragazze giovanissime, un fiume incontenibile e vitale. E ho pensato che ancora una volta le coincidenze e il calendario forse non campano a caso, e che, al pari del successo di Vecchioni, anche l’impatto fragoroso del film di Paola Cortellesi vada letto come segnale di qualcosa che va oltre i cinema pieni con un pubblico giovane e commosso per quei centodiciotto minuti in bianco e nero salvo liberare spontaneo l’applauso sui titoli di coda.

Voglio dire questo: che cambiamenti nel modo di pensare, nella percezione delle gerarchie sulle cose che contano davvero, nella sensibilità e nei sentimenti destinati a prevalere in un particolare momento, sono spesso affluenti distinti di uno stesso corso d’acqua capace d’ingrossarsi sino a sfociare in un mare meno placato e placido di come lo si immaginava. Non posso dire perché, non lo so se questo paese oggi stia davvero ribellandosi. Quello che penso è che stia ribollendo in una consapevolezza crescente dei rischi che corrono le libertà e i diritti di una lunga serie di soggetti non più disposti a tacere.

Qualche anno fa, c’è stato chi si è interrogato sulla possibilità che un nuovo ‘68 fosse appannaggio della destra, in Italia come in Europa. Era un allarme giustificato da più di un’avvisaglia sul rigurgito di impulsi razzisti e non solo. Mi piace pensare che, a un anno esatto dall’insediamento del governo più a destra della storia recente, anche questo scorcio d’autunno nella sua miscela di dolore e reazione possa disegnare l’avvio di una riscossa civile e culturale in ambiti ritenuti impermeabili a una vera indignazione per ciò che questa destra continua a dire e fare.

Penso sia una ragione in più per convincersi che l’alternativa non vive solo dentro alle istituzioni, ma troverà ragione di sé nell’adesione larga di quante e quanti chiedono di farsi protagonisti e non testimoni di una stagione diversa. Da mesi Romano Prodi avanza al Pd e alle opposizioni la proposta di un viaggio nei problemi degli italiani. Scegliere i dieci temi che si discutono la sera attorno al tavolo della cena, costruire su ciascuno una settimana di appuntamenti, ascolto, riflessioni, e poi condurre a sintesi quel bagaglio di suggestioni e idee.

Credo abbia ragione, e penso che dovremmo farlo per una ragione in più. Perché, al fondo, le piazze di sabato e il clima nuovo di queste settimane, in un’Italia dove la destra governa essendo minoranza, il primo di quei dieci temi ce lo hanno messo dinanzi agli occhi, al cervello e al cuore. Perdere l’occasione sarebbe un errore che non possiamo permetterci, e le nostre scelte più recenti suonano a conferma che la leadership del Pd questo messaggio non solo lo ha compreso, ma lo ha fatto suo. Se è così, il tempo per partire è adesso.

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