In uno dei suoi film di cui si parla sempre poco gli amici di Massimo Troisi lo informano «per il bene suo» che la ragazza che lo ha lasciato e che lui ama ancora si è messa con un altro. La risposta è ammirevole, come sempre quando il paradosso comico sgancia l'arma atomica del buon senso: «Ma perché siete tutti così sinceri con me, che cosa vi ho fatto di male io? Chi vi ha chiesto niente? Queste non sono cose che si dicono in faccia, queste sono cose che si dicono alle spalle dell'interessato. Sono sempre state dette alle spalle» (Pensavo fosse amore... invece era un calesse, 1991).

Di questi giorni di seconda ondata è rimasta soprattutto l'impressione che troppe cose venissero per lo più dette alle spalle di noi interessati, con Giuseppe Conte che si struggeva e attendeva i dati mentre là fuori gli ospedali esplodevano e le ambulanze sgommavano. Ci è rimasta l'impressione che tanto a lui come a noi servissero degli amici con buone intenzioni e cattive maniere che ci dicessero la verità per il bene nostro. La verità fa male. La verità rende liberi.

La verità, nel paese dei decreti compilati con la cromoterapia (giallo, rosso, arancione) e col dizionario dei sinonimi per non traumatizzarci di nuovo coi lockdown e i bonus (adesso si dice coprifuoco e ristoro), non è uno sport per signorine. La verità è una pratica sgradevole ma necessaria come quegli esami endoscopici fortemente raccomandati – ancora il nuovo Dpcm! - dopo una certa età, e spesso provoca anche le identiche controverse sensazioni.

Il sincero

Non c'è rimasto più nessuno in Italia a dire la verità come la dice Vincenzo De Luca, presidente della Campania, ex sindaco e attualmente unico stand up comedian nazionale a uscire dalla nicchia grazie a un autentico successo popolare. Sarà la genetica borbonica, sarà l'apprendistato prima in Alleanza Contadina (esisteva sul serio) e poi nel Pci dove era affettuosamente soprannominato Pol Pot, ma solo lui, Viciénzo, è riuscito a conquistare la patente di immunità dialettica che nell'epoca della suscettibilità nessuno può più permettersi.

L'unica concorrenza temibile all'epopea deluchiana è forse quella di Donald Trump, un altro che gode moltissimo a esternare ogni sconvenienza gli venga in mente a favore di telecamera: indimenticabile il suo «they're dying, it's true. It is what it is» («Muoiono, è vero. Del resto è così». E chest'è, chioserebbe Vicienzo). Lo aveva detto a proposito delle duecentomila vittime americane del Covid: una scena orrenda e irresistibile che sembrava uscita dalle gag più lunari di Totò o dalle sitcom più agghiaccianti di Ricky Gervais. Ma sono paragoni superficiali e ingiusti: Trump dice il vero senza pietà perché, come tutti quelli che sono formati nel mercato immobiliare e nei reality show, è autenticamente sociopatico.

De Luca dice il vero perché è abituato a quegli italiani sotto steroidi che sono i campani, e sa bene che niente al di sotto dell'invettiva e della scenata verrà mai da loro recepito. Lo fa per il bene nostro con quei modi spicci da meridionale ruvido - è nato in Lucania, nel sud freddo e poco frequentato uguale a Games of Thrones – che una volta erano il sale della terra e oggi, come del resto qualunque cosa, sono percepiti come bullismo. Perché De Luca non è Trump o Bolsonaro: è Eduardo De Filippo.

Anzi, meglio: è Tina Pica, quella di farse adorabili come La Sceriffa o Mia nonna poliziotto, titoli perfetti anche per la biografia del Nostro. Chi se non Tina Pica potrebbe rendere giustizia al leggendario slogan deluchiano «io devo difendere la mia immagine di carogna»? È tutto repertorio, ferri del mestiere efficacissimi sul set o in Regione. Forse solo D'Alema toccava certe sprezzanti vette: ma adesso che è occupato in vigna non credo gli interessi una versione italiana di Statler e Waldorf - i perfidi vecchietti nel loggione del Muppet Show - in tour con Vicienzo.

Carogna, ma furba

Questa immagine di carogna De Luca se l'è cucita, e come i grandi villain sa bene quanto sia sottile la linea che separa l'uomo-che-amiamo-odiare dal più banale incompetente che non sa conquistarsi l'applauso della platea: Vincenzo non avrebbe mai twittato che il virus ammazza i vecchi, ma tanto essi «non sono indispensabili allo sforzo produttivo del Paese» come ha fatto il suo omologo ligure Giovanni Toti. Che gelida cafonata, che puzza di soluzione finale, che Donald Trump.

No, il vero finto-cattivo sa bene quanta passione richieda far accettare la verità impronunciabile: ci vogliono fantasia intuizione colpo d'occhio e velocità d'esecuzione. E moltissima cazzimma, per dirla in deluchese. Trovatemi voi una definizione migliore di «parcheggiatore abusivo, venditore di cocco» per descrivere Matteo Salvini come ha fatto lui questa estate. Perfetto, epigrammatico, eduardiano. Trovatemi un altro politico che se ne freghi così tanto di sembrare gioviale da sostenere che Halloween, questa stronzata che per motivi insondabili abbiamo deciso di importare, è «un monumento all'imbecillità». Nessuno più di De Luca odia le feste inutili: per quelle di laurea, nel paese in cui la laurea vale sul mercato del lavoro più o meno quanto la cresima, ha minacciato l'ormai proverbiale lanciafiamme. E sospetto che lo pensasse da prima dell’emergenza.

Trovatemi soprattutto uno che nella repubblica delle mamme perennemente afflitte si scagli contro la didattica in presenza sfottendo la «bambina Ogm» che piange per andare a scuola, almeno secondo il melodramma raccontato dalla genitrice. È tutto molto amaro e crudele: insomma, un tonico per chiunque legga i deliri postati ogni giorno dai genitori del ventunesimo secolo sui loro bambini civisti e iperdotati. Vincenzo De Luca è un gusto acquisito: in moltissimi - invece che imperatore del mondo - vorrebbero vederlo tornare alle alleanze contadine, qualunque cosa esse siano. È perché non hanno avuto la fortuna di essere cresciuti da lui, e oggi scrivono lettere a questo giornale perché li offende leggere di tv e di Vanzina quando potremmo invece parlare dell'Ecclesiaste e di pittura fiamminga.

Ho capito perché volevo bene a Vincenzo quando mi sono ricordato che mi aveva cresciuto un padre deluchiano-meridionale: uno che un'estate di tanti anni fa, arrivando su una spiaggia affollata, sibilava con un disprezzo che avrei poi ritrovato solo in Moretti e in Vicienzo «ma dove siamo? A PALM BEACH?!». Uno che quando assaggiava una cosa non di suo gusto deliberava con la voce di chi ha perso ogni gioia di vivere «provo un senso di schifo». Uno che mi ha fatto capire presto che a volte si deve difendere una immagine di carogna per il bene nostro. Uno, per fare un esempio puramente casuale, che ci avrebbe detto subito «state a casa, infelici» invece di sprecare due mesi a cercare il modo più carino di non darci un dolore.

 

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