Per qualche tempo il governo Meloni e l’alleanza che lo sostiene potranno godere di una navigazione tranquilla. L’opposizione non è nelle condizioni di nuocere più di tanto. Per vari motivi. Il primo riguarda la sua frammentazione. Sulla carta i partiti che non sostengono l’esecutivo sono sette: Pd, M5s, +Europa, Verdi, Sinistra italiana, Azione e Italia viva. Un coacervo di sigle di cui solo le prime due dispiegano una massa critica di un certo rilievo.

Anche il cosiddetto Terzo polo – Azione e Italia viva – in linea di principio potrebbe esercitare una certa pressione a livello parlamentare ma, come le cronache raccontano, il rapporto tra i due leader è, per usare un eufemismo, complicato. Tant’è che le ultime voci parlano di una rottura del gruppo parlamentare comune. Altro aspetto problematico dell’opposizione, l’indisponibilità di una sua parte ad una contestazione serrata e grintosa della maggioranza. Italia viva è ormai entrata, informalmente, nell’area governativa, pronta a sostenere la maggioranza in caso di bisogno o per propri interessi (si veda il recente emendamento Boschi sulla previdenza integrativa).

Ancora più significativo dei vari episodi di intelligenza con il governo, è la contiguità affettiva, e di classe, dei dirigenti renziani con la ministra Santanchè esibita dal loro frequentare allegramente il suo resort come nulla fosse.

Un matrimonio difficile

Quindi, già va tolto da novero dell’opposizione Italia viva, indisponibile ad ogni azione congiunta contro il governo. Leggermente diverso è l’atteggiamento del movimento di Calenda, oscillante e umorale come il suo leader. Pronto a schierarsi con il Pd e, turandosi il naso, con i Cinque stelle sul salario minimo ed eventualmente su qualche altra battaglia civile, ma del tutto alieno da accordi più ampi per l’ostilità ideologica nei confronti dei pentastellati.

Alla fine, tutto ruota intorno al rapporto tra Pd e M5s. Se si creasse una vera sintonia tra i due allora eserciterebbero una forza magnetica di attrazione nei confronti degli altri soggetti. Questa opzione però non è alle viste. Tra democratici e pentastellati rimangono i detriti di un rapporto nato malissimo all’epoca della prima irruzione dei M5s in parlamento, basti ricordare l’aggressione politico-mediatica a Pier Luigi Bersani nel 2013.

L’improvviso matrimonio di convenienza del Conte 2, quando il Pd sostituì la Lega come junior partner di governo - una delle operazioni politiche più acrobatiche della storia parlamentare - è poi naufragato proprio per iniziativa di chi l’aveva proposto all’epoca, e cioè Matteo Renzi.

E il Pd zingarettiano non è stato in grado di tenere la barra sulla difesa di quell’esecutivo. Ma la rottura si è consumata un anno fa, al momento della crisi del governo Draghi. Giuseppe Conte, un po’ per ripicca e un po’ per ingenuità, non ha colto l’opportunità di lasciar soli Forza Italia e Lega nel loro voto di sfiducia nonostante le pressioni di Enrico Letta. Qual diniego ha aggiunto sale alle vecchie ferite. Al punto da far trionfare il masochismo politico di andare alle elezioni divisi e consegnare il paese alla destra.

Diffidenze

Il cambio di segreteria nel Pd ha reso più agevole la ripresa dei rapporti. Rimangono tuttavia dei macigni sulla strada di un solido accordo politico, legati non tanto alle singole questioni quanto alla indeterminatezza dei riferimenti culturali e ideali dei pentastellati tale da lasciar i democratici sempre sul chi vive. I princìpi enumerati nello statuto del M5s fanno parte di una agenda eco-socialista ma faticano a forgiare l’identità del partito e a proiettarla verso l’esterno.

I Cinque stelle sono in potenza assimilabili ad una sinistra moderna ma non lo hanno ancora evidenziato. E questo mantiene alte le diffidenze e limitato il coordinamento. Servono tempo, pazienza e quel cacciavite che purtroppo Enrico Letta ha lasciato cadere.

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