L’unità delle opposizioni è lontana, ma per una volta all’orizzonte c’è. O almeno si intravede. Non ha la forma del vecchio centrosinistra, due volte vittorioso ma definitivamente passato; e neanche quella più recente del «campo largo», morto e sepolto prima di nascere.

Ha la forma del Fronte del No al referendum confermativo per la riforma costituzionale appena proposta di Giorgia Meloni. Un orizzonte lontano, certo: il presidente della Repubblica ancora non ha firmato il testo, non è ancora stato ricevuto dal Colle e Sergio Mattarella fino a mercoledì è in visita ufficiale in Corea del Sud.

Né è chiaro da quale camera la legge inizierà l’iter, come ha detto martedì ai cronisti Alberto Balboni (Fdi): «L’assegnazione a Camera o Senato dipende dal governo e segnatamente dal ministro per i Rapporti con il Parlamento, ancora non sappiamo».

Ma insomma, uno straccio di prospettiva unitaria stavolta è scolpita: i leader delle opposizioni, anche quelli che preferiscono ballare da soli, presto o tardi si schiereranno nel Fronte del No. E dal Fronte del No può persino nascere uno schieramento di governo, come è successo nel 2016.

Dispetti a sinistra

L’alleanza “politica” delle opposizioni invece è sempre più lontana. Basta vedere come si comportano i Cinque stelle con il Pd. La vittoria di Foggia ha fatto primavera solo in Sardegna, con una candidata comune (grillina) alle regionali, ma stenta in Piemonte. Nelle città che andranno al voto le cose non vanno bene: l’ultimo dispetto di Giuseppe Conte a Elly Schlein si è consumato a Firenze.

Nel capoluogo toscano si vota il prossimo anno. Il Pd sa che deve costruire una «coalizione ampia» (parola del segretario regionale Emiliano Fossi) ma è convinto che a guidarla debba essere un proprio esponente, capace a sua volta di tenere insieme anche Italia viva, che in città si è ristretta parecchio, ma può fare la differenza; invece Conte ha sondato lo storico dell’arte Tomaso Montanari.

Che però è fumo negli occhi per l’attuale sindaco Dario Nardella. Morale della favola: le alleanze per le amministrative procedono a capriccio del leader M5s; per le politiche si vedrà dopo le europee, ma la bilancia pende verso il no.

Del resto la formula «campo largo» ormai è bandita anche a casa dem: la segretaria continua a ripetere che «l’alternativa c’è», ma sa che insistere con i possibili alleati oggi è tempo perso. Carlo Calenda lo ha già escluso: il 28 ottobre ai suoi, in un’assemblea romana in cui Schlein era riuscita a strappare qualche applauso, ha chiuso la discussione: no, «over my dead body. Dovrete passare sul mio corpo».

Una proposta comune

E però un qualche destino di unità delle opposizioni è scritto. In parlamento la riforma Meloni non avrà i numeri per evitare il referendum popolare.

In realtà sulla carta c’è anche la possibilità di una controproposta comune delle opposizioni, tutte tranne Iv. Basta ascoltare in sequenza le prime reazioni contro il testo Meloni ed esce la traccia di un disegno di legge ispirato al cancellierato tedesco. «Chiediamolo insieme», ha detto Calenda all’indirizzo di Pd e M5s. Schlein ha raccontato che quando a maggio ha incontrato la premier a palazzo Chigi, le ha posto il tema «della sfiducia costruttiva, che eviterebbe crisi al buio».

Conte non si sfila, almeno a parole: «Alcuni elementi del sistema tedesco sono positivi, il M5s è disponibile a confrontarsi con le altre opposizioni». I punti comuni ci sono: no all’elezione diretta del premier e no al ridimensionamento del ruolo del presidente della Repubblica; sì a correttivi capaci di rafforzare i poteri del premier e di favorire la stabilità di governo, e cioè la sfiducia costruttiva (è «la chiave di volta», secondo il presidente M5s) e il potere di nomina e revoca dei ministri.

A maggio Pd e M5s hanno proposto alla premier il rafforzamento dei referendum e delle leggi di iniziativa popolare. Il Pd ha chiesto il cambio della legge elettorale «per recuperare il rapporto tra rappresentanti e rappresentati, per superare le liste bloccate».

Ma su questo lato per ora le convergenze non vengono neanche cercate, si aspetta il tempo degli emendamenti in aula. Il Pd sta per depositare la sua proposta, «fra pochissimi giorni», spiega il senatore Dario Parrini. Lo stesso Azione, riferisce il deputato Enrico Costa: «Ci stiamo lavorando, sarà un testo in chiave tedesca».

Quanto a M5s, Conte ha spiegato a Repubblica che se il governo «si incaponirà» nel referendum «Meloni rimarrà scornata», «quando gli italiani capiranno che la figura del capo dello Stato viene degradata e umiliata, respingeranno con forza questo progetto»; quelli del governo «sanno che vanno a perdere».

Ma se il governo perdesse, il punto è capire chi vincerebbe. E per capirlo bisogna rivedere il film del dicembre 2016, quando un ampio fronte del no si coalizzò contro la riforma Renzi-Boschi. Era un vasto schieramento sociale, capitanato dalla sinistra a sinistra del Pd (più l’area D’Alema-Bersani che era ancora nel partito).

Ma il grosso dell’elettorato era quello di Cinque stelle e Lega. E infatti non fu la sinistra a capitalizzare il risultato: furono proprio quelle due forze politiche, che un anno dopo finirono insieme nel primo governo Conte, il governo gialloverde. Stavolta Pd, sinistra, M5s e Azione si troveranno schierati dalla stessa parte. Anche a dispetto dei leader che «mai nel campo largo».

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