I primi centri antiviolenza in Italia sono nati tra gli anni Ottanta e Novanta a Bologna, Modena, Merano, Milano, Roma e Palermo. Nel 1990 sono iniziati gli incontri del Coordinamento nazionale dei centri antiviolenza a Bologna e, in seguito, nelle altre principali città d’Italia. Ma il paese si è dotato formalmente di un sistema antiviolenza strutturato solo dieci anni fa, con la ratifica della convenzione di Istanbul del Consiglio d’Europa e l’adozione della legge 119 del 2013. Il sistema è gestito dal dipartimento per le pari opportunità con piani triennali e finanziamenti alle case rifugio e ai centri antiviolenza.

Dal 2013 a oggi, gli investimenti sono aumentati del 156 per cento. E, come riporta il report dell’organizzazione internazionale indipendente Actionaid Prevenzione sottocosto, La miopia della politica italiana nella lotta alla violenza maschile contro le donne, il maggior incremento di fondi si è registrato tra il 2020 e il 2023, con uno stanziamento pari a 248,8 milioni di euro. L’aumento però non è stato pari in tutti gli ambiti. Al contrario, il governo Meloni ha tagliato il 70 per cento dei fondi per la prevenzione della violenza rispetto al 2022.

Il numero dei femminicidi però è rimasto sostanzialmente stabile. Secondo il rapporto redatto periodicamente dal dipartimento di pubblica sicurezza, da inizio gennaio al 19 novembre sono 106 le donne morte ammazzate, di cui 87 in ambito familiare e affettivo.

A questo numero si aggiunge anche il femminicidio di oggi, martedì 21, nelle Marche, raggiungendo quindi quota 107. Il dato è perfettamente in linea con gli anni precedenti: dal 2014 a oggi oscilla tra le 119 e le 95 vittime annuali. A un aumento degli investimenti, quindi, non è corrisposta una diminuzione dei femminicidi.

Gli obiettivi degli investimenti

L’81 per cento delle risorse stanziate, pari a 201 milioni di euro, è dedicato al finanziamento di interventi di protezione delle donne già vittime di violenza. Ma, nonostante la maggior parte delle risorse sia destinata a questo ambito, i fondi per i luoghi che accolgono le donne vittime di violenza sono insufficienti.

«L’Istat ogni anno chiede ai centri antiviolenza e alle case rifugio di caricare i dati delle accoglienze. È emerso che ricevono in media un euro al giorno per donna accolta», dice Mariangela Zanni, consigliera nazionale di Donne in rete contro la violenza (D.i.Re).

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Una parte degli investimenti è finalizzata alle azioni di sistema, come la raccolta dati Istat e la creazione di una banca dati che si occupi di monitoraggio del fenomeno. Le intenzioni erano state ribadite in un documento di ottobre 2020, in cui si legge che «l’Istat e il Dipartimento delle pari opportunità della presidenza del Consiglio rendono disponibile, tramite uno specifico sistema informativo, un quadro integrato, e tempestivamente aggiornato, sulla violenza contro le donne in Italia».

Nei fatti, i dati Istat più recenti sono aggiornati a due anni fa e riportano in particolare le chiamate al 1522 e i procedimenti giudiziari. Non esiste un documento che renda conto in modo puntuale delle politiche attuate negli ultimi dieci anni.

Solo il 12 per cento del finanziamento è indirizzato ad azioni di prevenzione. La distribuzione delle risorse rende evidente che le strategie dei governi negli ultimi quattro anni sono state di tipo repressivo e non preventivo. L’obiettivo è stato quello di far fronte al fenomeno quando la violenza era già avvenuta, quando ormai in qualche caso era troppo tardi per intervenire. Un piano, quindi, senza una strategia strutturata di educazione (o rieducazione) che possa aiutare a scardinare gli stereotipi e a rompere gli schemi mentali che si tramandano da generazioni.

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Anche analizzando gli investimenti nella prevenzione, in realtà, emerge che il 55 per cento di questi è destinato alla prevenzione terziaria, cioè alla rieducazione degli autori delle violenze per abbassare il tasso di recidiva, a misure urgenti di protezione e misure cautelari coercitive.

Su 248,8 milioni di euro, solo 13,8 sono dedicati alla prevenzione primaria, cioè a campagne di sensibilizzazione, all’educazione nelle scuole e ad attività di empowerment femminile. Significa che, rispetto al finanziamento totale, i fondi per la prevenzione primaria sono solo il 5,6 per cento. Questo dato sui fondi della prevenzione primaria è il risultato di un taglio del governo Meloni pari al 70 per cento rispetto ai 17 milioni dell’anno precedente.

Uno sconto che, secondo Actionaid, «non ci possiamo permettere» perché comporta un approccio emergenziale alla questione, come se fosse una pandemia, un fenomeno grave ma temporaneo, a cui far fronte senza nessun piano strutturato di lungo periodo.

Ma non è solo una questione di diminuzione degli investimenti. «L’anno scorso erano stati stanziati cinque milioni di euro per progetti di sensibilizzazione. Ma dopo più di un anno non sappiamo ancora a chi andranno quei soldi. Passano anni prima che si possa accedere ai fondi e ulteriore tempo per dare il via ai progetti», continua Zanni.

Cos’ha fatto il governo Meloni?

I casi di stupro catturano l’attenzione dell’Italia e mettono in luce le fratture culturali, aveva titolato il New York Times al termine della scorsa estate definita «di crimini orribili, tra cui gli stupri di gruppo di due giovani ragazze».

Il governo Meloni ha dovuto cercare di far fronte a mesi di violenze sessuali di gruppo, femminicidi, violenze e frasi maschiliste sulle molestie in diretta televisiva. In risposta, gli sforzi del governo si sono concentrati sulla promozione del disegno di legge Disposizioni per il contrasto alla violenza sulle donne e contro la violenza domestica, il cui testo si concentra nuovamente sul potenziamento di misure di punizione e prevenzione terziaria, in linea con gli investimenti attuati.

Eppure, gli stati, secondo la convenzione di Istanbul, dovrebbero adottare norme per promuovere cambiamenti socioculturali destinati proprio a «prevenire e combattere ogni forma di violenza e fornire una risposta globale alla violenza contro le donne».

Dopo l’uccisione di Giulia Cecchettin il governo ha detto che avrebbe rafforzato ulteriormente la disciplina in vigore, il cosiddetto Codice Rosso. «Ma queste norme non servono a niente se non vengono applicate, se le donne non sono credute, se non si agisce a livello strutturale», continua Zanni. I fatti dimostrano che gli uomini non si fermano davanti a pene più severe o alla possibilità di andare in carcere.

«Le indicazioni europee dicono che le nostre leggi sono buone, ma passano mesi prima che siano applicate. Un esempio è ciò che è accaduto a un centro antiviolenza dell’Italia centrale, che ha ricevuto solo pochi giorni fa la prima segnalazione di allontanamento dall’inizio dell’anno. C’è un’incapacità del governo di leggere la situazione. E, al posto di agire alla radice, si continuano a trovare soluzioni tampone».

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