Malumori di dirigenti locali, perplessità dei colonnelli. E lo sguardo preoccupato al rompicapo delle candidature alle Europee: i posti utili per ottenere l’elezione sono pochi, la concorrenza interna potrebbe solo acuire le tensioni, tenendo presente qualche posto in lista da destinare agli alleati moderati dell’Udc di Lorenzo Cesa.

Un vortice che può dare la stura alla fuoriuscita di chi ambisce alla riconferma di un euro seggio, magari con altri partiti. La notizia della non ricandidatura di Marco Zanni, capogruppo a Bruxelles, ha un impatto, nonostante il diretto interessato abbia garantito che non lascerà il partito. Un segnale del pesante declino dei consensi e della riduzione dei posti utili.

Ossessione mandato

Nella Lega ogni giorno ha la sua pena, con Matteo Salvini che ostenta sicurezza sulla tenuta della leadership e punta a liste forti per drenare consensi. Al prezzo di sacrificare qualcuno. Nel suo inner circle nessuno crede davvero che qualcuno possa anche solo provare a detronizzarlo. A prescindere dai risultati alle prossime elezioni sia regionali (in Abruzzo e Basilicata) che Europee.

Così il vicepremier si concentra sulla propaganda di governo e la battaglia con gli alleati. A cominciare dal terzo mandato per gli amministratori locali: «Se uno si trova un sindaco o un governatore bravo dovrebbe poter essere libero di sceglierlo ancora o mandarlo a casa. Sono i cittadini che decidono». Da qui ha rilanciato il parallelo con i parlamentari: «Non c’è un limite, alcuni lo fanno da 40 anni e la gente li vota».

Lo scontro sarò continuo in parlamento, riproposto in ogni appuntamento utile nel calendario per garantire, prima possibile, la ricandidatura di Luca Zaia in Veneto.

Ma, al netto dei soliti mantra, i problemi aumentano giorno dopo giorno. E per il dopo Europee qualcosa si muove all’interno della Lega e altrettanto dall’esterno. L’ultima spia si è accesa con le parole di Roberto Vannacci nell’intervista al Corriere. «Posso pensare a una federazione. Ma una mia lista significherebbe fare un partito», ha detto.

Un modo nemmeno troppo velato per far capire che i giochi con Salvini non sono fatti e che soprattutto non è interessato a un ruolo ancillare. Sogna in grande, vuole essere un protagonista. Il rischio è che il leader leghista possa trovare in Vannacci un competitor. Intanto ha fatto finta di niente e ha difeso il generale. «Lo vorrei in Europa», ha ribadito, convinto di ottenere il sì definitivo.

Il puzzle non è affatto semplice da completare. Se il militare dovesse realmente accettare, la candidatura sotto le insegne leghiste, come ripetono dai vertici del partito, lo farebbe a un prezzo elevato, ossia pretendendo il ruolo di frontman. Probabilmente in quattro delle cinque circoscrizioni.

Una condizione indigesta a chi finora ha pedalato per garantire la rappresentanza della Lega nelle Istituzioni, dall’Europarlamento in giù. Profili come Susanna Ceccardi, giusto per fare un nome di primo piano, non vivono con leggerezza l’eventuale retrocessione al grado di “soldato semplice” al fianco del generale, nuovo campione del verbo della destra radicale. Così caro a Salvini. Tradotto: non tutti pensano al passo indietro come Zanni né tantomeno alla rinuncia a fare il capolista.

Di fronte ai nervosismi, la propaganda tipicamente salviniana non è sufficiente. Serve qualcosa in più. Cosa, però, resta un mistero. Il leader leghista sta comunque fiutando l’aria di un cambiamento nei suoi confronti: per questo ha chiesto alle segreterie locali, praticamente tutte legate alla sua figura, di fare quadrato. Una blindatura su tutta la linea. In questo modo è impensabile un colpo di mano interno.

Malumori parlamentari

Eppure tra i volti noti, anche in parlamento, si addensano i dubbi sulla strategia. Al di là dei soliti Giancarlo Giorgetti e Massimiliano Fedriga, eterni cincinnati del salvinismo, il capogruppo alla Camera, Riccardo Molinari, è tra i più perplessi sull’evoluzione degli eventi. Il rapporto con Salvini non è più quello di un tempo.

Il presidente dei deputati ha vissuto con dispiacere la decisione di mandare Lorenzo Fontana sullo scranno più alto di Montecitorio. Molinari ha sempre ritenuto di avere tutti i titoli per quell’incarico, al netto della giovane età.

Dopo il passaggio il rapporto è stato altalenante, sebbene non ci sia mai stata una rottura totale. Ma c’è un accumulo di incomprensioni. Il capogruppo coltiva così l’ambizione di un ruolo sempre più autonomo rispetto ai vertici. Fino a diventare un punto di riferimento per quei dirigenti che immaginano un post Salvini al comando della Lega. Con un punto fisso: l’attuale segretario resta al governo e lascia il partito agli altri per far ripartire una fase di nuovo radicamento. Una figura che possa garantire una certa continuità rispetto al passato, ma avviando un’operazione di cambiamento. Molinari si immagina come un buon traghettatore in modo da testare la sua capacità di guida da segretario vecchio stile.

Anche nel regno lombardo si sta manifestando qualche problema per Salvini. Il capogruppo al Senato, Massimiliano Romeo, vorrebbe avere un ruolo di primo piano, diventando segretario regionale. Pensa di meritarselo dopo le fatiche di Palazzo Madama. Mentre i vertici nazionali preferiscono lasciare il deputato Fabrizio Cecchetti, alter ego di Salvini.

A conferma di una volontà di cristallizzare la situazione. Fatto sta che qualcosa significa, se anche i capigruppo emanazione del salvinismo, chiedono spazio. Un cambio di passo epocale, che un leader cristallizzato nel post Papeete finge di non vedere. Immaginando sempre che possa diventare il Salvini premier, come recita la dicitura presente nel partito.

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