Non allarghiamoci troppo; crediamoci di più. Si potrebbe riassumere così il flop dell’opposizione alle elezioni regionali abruzzesi. Partiamo dalla prima massima. È certamente vero che la politica elettorale ha una naturale dimestichezza con il compromesso, le giravolte, la furbizia e l’opportunismo.

Nel paese di Machiavelli, chi si stupisce di questo o disdegna la politica o si stupisce falsamente. Ma il segretario fiorentino insegnava anche che il «modo» è parte della sostanza.

Chi ha aderito al campo largo, i centristi di Azione e di Italia viva, lo ha reso poco credibile e con un fastidioso alone di palese opportunismo. Se opportunisti si deve essere, lo si sia nel modo conveniente. Chiuse da poco le urne sarde dove Carlo Calenda e Matteo Renzi si sono spesi contro l’alleanza Pd e Cinque stelle, portando sul candidato Renato Soru quei voti che avrebbero reso più forte e veloce la vittoria di Alessandra Todde, i due rivali in moderatismo hanno fatto una virata di 180 gradi e gli avversari di ieri sono diventati alleati. Il motivo della svolta non deve essere apparso nobile agli elettori.

Le alleanze, soprattutto quelle costruite con fatica e per necessità, devono preoccuparsi di pattugliare i confini. Un’alleanza vincente, come quella di destra, potrebbe permettersi alleati sfacciatamente opportunisti a conferma della sua forza magnetica. Tutti vogliono stare con chi vince.

Ma nel caso di un’alleanza che si costruisce da posizioni di oggettiva debolezza – cioè dall’opposizione – imbarcare chiunque voglia un posto sulla scialuppa è un segno di debolezza, non di forza.

La forza di una coalizione

Italia viva e Azione hanno aderito al campo largo perché non hanno trovato alternative in Abruzzo. Ecco allora che si sono orientati verso Elly Schlein e Giuseppe Conte. Dopo averli sbeffeggiati e aver criticato con una certa insistenza l’alleanza tra un partito massimalista (il Pd di Schlein) e un partito populista (i Cinque stelle di Conte), che credibilità può avere un’alleanza con loro?

Sarebbe forse stato preferibile che i due moderati facessero i moderati fino in fondo: se non c’è spazio per fare liste che si adattano al loro stile, meglio stare fuori e, semmai, dare indicazioni di voto. Ma salire sullo stesso palco calcato dai criticatissimi massimalisti e populisti non è una mossa strategica degna di Machiavelli.

La forza di una coalizione che parte in svantaggio sta anche nel sapere stabilire una soglia minima di coerenza. Perché anche se la politica elettorale è un ricamo di compromessi ed equilibrismi, un ricamo è (dovrebbe essere).

Un’opera di buon artigianato. Un senso di coerenza estetica, cioè di minima compattezza, bisogna volerlo. Altrimenti la coalizione sembra tutt’altra cosa, una boa a cui si attaccano quelli in panne e che tira giù tutti.  Al Pd va riconosciuto il merito di aver imboccato la direzione giusta, e gli elettori abruzzesi lo hanno capito e premiato.

Dall’11,9 per cento delle regionali 2019 al 16,6 per cento delle politiche 2022 al 20,3 per cento delle regionali di domenica scorsa. Bene, dunque, la direzione impartita da Schlein. D’ora in poi bisogna costruire bene la coalizione, che è certamente “solo” elettorale ma non può essere “esclusivamente” elettorale, come abbiamo notato. Questo può portare gli incerti alle urne.

Ed ecco la seconda massima: crederci di più. Le titubanze dei due alleati, Pd e Cinque stelle, il timore che mostrano agli elettori di volersi gelosamente tutelare mentre competono insieme, è probabilmente percepito come un segno di debolezza. L’alleanza c’è ma. Sarebbe necessario far cadere quel “ma”.

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