All’epoca dell’unità d’Italia la camera bassa era conosciuta come Camera dei deputati del Regno di Sardegna. Era il 1861 e nei decenni successivi quel ramo del Parlamento avrebbe cambiato nome più volte. Al momento dello scoppio della Seconda guerra mondiale, nel 1939, dopo anni di dittatura fascista, l’organo venne trasformato nella Camera dei fasci e delle corporazioni. Solo dopo la caduta del fascismo, con la nascita della Repubblica e della Costituzione repubblicana è stata ufficializzata la denominazione attuale, Camera dei deputati. E adesso potrebbe cambiare di nuovo.

Il deputato Gian Antonio Girelli (Pd) e la deputata Sara Ferrari (Pd) hanno presentato una proposta di legge costituzionale, in cui si richiede la modifica del nome in Camera delle deputate e dei deputati. «La collega Ferrari e io abbiamo pensato di incoraggiare un cambio di paradigma. Secondo noi le istituzioni possono dare un segnale forte», dice Girelli.

La Camera dei deputati è sorta in un momento storico preciso, rappresentava una realtà maschile ed economicamente benestante, «non ha niente a che vedere con i tempi odierni. Certo, non basta questo cambiamento se poi non è accompagnato da una presa di coscienza e consapevolezza. Mi piace pensare che sia un segnale che non introduce alcuna contrapposizione tra destra e sinistra, penso possa essere un messaggio condiviso».

Non è la prima volta che nell’ambiente della politica si parla di linguaggio. A dicembre, 76 tra senatrici e senatori hanno scritto una lettera al presidente del Senato, Ignazio La Russa, per chiedere che durante i lavori in aula e nelle commissioni sia garantito il rispetto del linguaggio di genere.

Dice la senatrice Aurora Floridia (Avs), promotrice dell’iniziativa: «Sono stata interpellata 17 volte senatore dalla presidente della commissione Affari Esteri e Difesa Stefania Craxi durante la discussione degli emendamenti sul piano Mattei. È assurdo che dobbiamo ancora insistere affinché venga riconosciuto il diritto di ogni senatrice a essere chiamata “senatrice” e non “senatore”. Facciamo una pessima figura anche rispetto alle nuove generazioni, che vedono le istituzioni lontane dalla società attuale in piena evoluzione».

Ma non si tratta solo di una questione di correttezza linguistica. Le parole servono per dare forma ai pensieri e alla quotidianità, magari anche intervenendo per modificarla. «La lingua italiana è espressione e rispetto di identità ed è vettore della cultura di un paese. Rispecchia e influenza la realtà tangibile nella società e aiuta a ridurre o, viceversa, ad acuire stereotipizzazioni. Un linguaggio rispettoso e inclusivo contribuisce a contrastare la violenza verbale, che per altro è una delle forme di maltrattamento sulle donne», continua Floridia.

L’obiezione che spesso viene mossa è che il linguaggio non sia un problema vero, che ci siano molte altre questioni da risolvere prima, come il gender pay gap o la ridistribuzione del lavoro di cura non retribuito. «Viviamo nell’era delle narrazioni polarizzate: su qualsiasi questione c’è un coro di persone che sostiene che i problemi siano altri – dice la sociolinguista Vera Gheno –. Le istanze vengono sempre messe in concorrenza: o ti occupi di diritti o di parole. La verità è che questi due piani si intrecciano a vicenda, lavorando anche sul piano delle parole si possono innescare circoli virtuosi. Se cambiamo il modo in cui parliamo della realtà ci viene voglia di modificare la realtà stessa. Nessuno pensa che basti la parola da sola a cambiare le cose».

L’uso delle parole

C’è chi lo chiama «linguaggio inclusivo». In particolare, si parla di écriture inclusive, diffusa ampiamente – ma non senza polemiche – in Francia a partire dal 2015, anno in cui l’Alto consiglio per l’uguaglianza tra donne e uomini ne ha raccomandato l’uso. L’obiettivo era diminuire le rappresentazioni in cui donne e uomini incarnano, ripropongono e quindi rafforzano gli stereotipi di genere.

A livello europeo se ne parla almeno dal 2008, quando sono state adottate linee guida multilingue sulla neutralità di genere nel linguaggio. Il dibattito però si era acceso anni prima. Già nel 1987 la linguista e attivista Alma Sabatini aveva denunciato che l’italiano non era una lingua neutra nel suo libro Il sessismo nella lingua italiana, sostenendo che nei vent’anni precedenti era iniziato un processo di acquisizione di «consapevolezza di quanto profondamente la nostra lingua fosse intrisa di forme segnatamente sessiste e di valori patriarcali».

Avvocata, assessora, sindaca, ingegnera non sono un vezzo, né tantomeno una pratica recente. Il linguista Francesco Sabatini nella prefazione al libro scriveva già più di trent’anni fa che «non si vede per quali motivi non si debbano accettare in vari usi, orali e scritti, almeno le forme la preside, la senatrice, la deputata, la vigile, la notaia».

Ma «linguaggio inclusivo» non è l’unica possibile definizione. Il Parlamento europeo l’ha denominato linguaggio «gender-neutral», intendendo «l’uso di una lingua equa dal punto di vista del genere, che ha l’obiettivo di evitare scelte di parole che possono essere interpretate come parziali, discriminatorie o umilianti, implicando che un sesso o un genere sociale sia la norma».

Per Vera Gheno, invece, «linguaggio ampio» è la definizione migliore perché «se vado sullo Zingarelli c’è scritto che l’inclusione è la capacità di non discriminare. Riproduce ancora una volta un punto di vista prevalente, quello di chi include. Per questo ho mutuato dal divulgatore Fabrizio Acanfora il concetto di “convivenza delle differenze” al posto di “inclusione”. In questo senso, più parti decidono insieme come convivere».

La difficoltà di cambiare

Non mancano nella società le resistenze al cambiamento. «L’innovazione implica un adattamento, non è sempre facile cambiare ciò a cui siamo abituati. Se guardiamo al passato, nel ‘900 non si diceva nemmeno deputata, anzi si usava deputatessa per schernire. I cambiamenti sociali e linguistici richiedono tanto tempo», continua Gheno.

Le parole non riguardano unicamente la sfera formale, ma anche quella sociale e culturale. Per questo, per cambiarle occorre un lavoro profondo che parta anche dalla scuola. «Le ore di italiano in ambito scolastico riguardano, tra le altre cose, l’uso delle parole. Ma siamo ancora nell’epoca di Tullio de Mauro, che nel ’75 diceva che non basta insegnare la grammatica, bisognerebbe portare un po’ di linguistica perché stimola il pensiero meta-cognitivo».

Anche coloro che si oppongono e stigmatizzano certi cambiamenti della lingua sanno che le parole hanno un peso. «Ogni volta che c’è un regime più restrittivo, come nel caso della Corea del nord o dell’Ungheria, quello a cui si mette mano sono le parole. Anche la destra italiana ha sempre preso in giro queste istanze, chiamandole “boldrinate”. Eppure, il primo atto di Meloni al governo è stato una circolare in cui diceva di chiamarsi il presidente del Consiglio. Se le parole non fossero importanti questa circolare non ci sarebbe mai stata».

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