Nel 2013 a Matteo Salvini viene affidato un partito orfano del padre/padrone Umberto Bossi e sfiancato dagli scandali. Considerato dai vari Maroni, Zaia e Calderoli il male minore o forse l’utile idiota. La difesa della ormai residua struttura “ideologica” padrona della Lega Nord anti-sistema e rivoluzionaria, affidata alla tutela di un ufficiale giudiziario aspirante condottiero.

Come nel 700 fece Leone III, imperatore bizantino, Salvini ha proceduto speditamente, senza idee o ideologie alternative, ma con pura tattica, a rimuovere l’universo simbolico e identitario della Lega Nord. Una furia iconoclasta per contenere gli infedeli musulmani, ma anche i diversi di ogni sorta e risma.

Anziché espungerli, Salvini li ha in qualche misura inglobati, al contrario di quanto fece Leone III con gli “infedeli”. Salvini ha infatti ha tentato di tenere dentro al sistema leghista gli italiani del Sud. È stato possibile perché Salvini ha rinunciato, almeno nella faccia esterna, all’anti-meridionalismo.

L’invenzione della Lega nazionale, al pari della favola della nazione padana, sono frutto di deviazioni storiche e distorsioni concettuali, esito di un pianificato esperimento di scalata elettorale.

Il vincente lancio sul mercato politico di un prodotto personale. Non un partito personale, ma una spregiudicata Opa ostile al centro-destra, per disarcionare il Cavaliere, Silvio Berlusconi.

Salvini si è rivelato straniero in patria: lontano dalla base del Nord, con l’organizzazione molto indebolita e un tempo lustro del Carroccio; con la centralizzazione nelle sue mani come nemmeno durante la guida bossiana che pure si circondava di Mandarini pensanti; rispetto agli eletti che lo sopportano malvolentieri esposti alle sue trovate di giornate e alle inspiegabili mutevolezze del carattere e delle scelte.

Avere espunto la parola “Nord” dai contrassegni sulle schede elettorali è stato un passaggio molto forte  e propedeutico a una campagna che conducesse la Lega Nord fuori dai confini dettati dal dio pagano Po. Ma è solo una parte della storia. 

Salvini iconoclasta

L’iconoclasta ha espunto il Nord con una meticolosa azione di rimozione collettiva. Ha proceduto a un lavaggio del passato con pignola e diligente cattiveria politica, deciso a impossessarsi del malloppo politico ereditato. Al primo raduno di Pontida guidato Salvini lo slogan era “Prima il Nord”. L’incontro sul pratone del piccolo comune bergamasco ha rappresentato nella storia della Lega un rito (ri)fondativo irrinunciabile.

Dopo l’interregno di Roberto Maroni per un anno il raduno non si sia tenuto, pensando che quel momento di effervescenza collettiva rimandasse a una comunità residuale e identitaria non più compatibile con un partito ad ambizione nazionale.

La soluzione di Salvini è stata pragmatica. Ha deciso di conservare l’appuntamento di Pontida consapevole dell’importanza del partito territoriale. Ma lo ha fatto con poca o meno enfasi rispetto al passato, sì che quella manifestazione, tra salsicce e improperi, fiumi di birra e proposte politiche, non intimorisse gli elettori più urbanizzati o a sud del Po.

Pontida rimane quindi un luogo simbolico, evocativo e identitario, sebbene di un’identità «inventata», cui Salvini ha conferito minore importanza. Ma rappresenta un luogo dell’anima, cui tornare e ritornare.

Brutale nei modi e truce nei contenuti, il luogo simbolo della Lega Nord è stato anche il pretesto per liquidare definitivamente il passato bossiano. Salvini contro Bossi è spietato: alla sagra leghista di Pontida del 2017 Bossi non parla, non sale sul palco. Gli è vietato farlo. Si compie l’omicidio del padre.

Di secessione non si parla più esplicitamente, sebbene la Lega continui  a drenare risorse, simboliche e finanziare, verso il Nord. Nessuna indipendenza, nessun distacco, niente sogno di nazione Padana, niente repubblica del Nord, Salvini ribalta lo schema adattandolo al nuovo corso politico, in cui il nemico è esterno.

I migranti vengono sostituiti agli emigranti italiani che dal sud hanno “invaso” il nord, costruendolo a furia di sudore, che però genera lezzo per una parte degli elettori leghisti e degli imprenditori di rinforzo. Nessuna autonomia, salvo quella funzionale alla (mala) gestione sanitaria in Lombardia e in Veneto.

Chi fino a pochi mesi prima aveva dileggiato, disonorato, vilipeso il Tricolore ne fa un marchio per distribuire un nuovo prodotto da banco.

Il partito contro la spesa pubblica, che però ora invoca “bonus”, aiuti di Stato un tempo esecrati come male assoluto.

Infine, l’anti-berlusconismo archiviato tatticamente per tentare, con una operazione tardiva e velleitaria, di irretirne i residui elettori fedeli e potenziali.

Il partito anti-clericale, del quasi ateismo proclamato, e della blasfemia rancorosa, diventa l’osannante della cristianità in chiave anti-immigrati con tanto di rosario sgranato a favore di telecamera, ma pur sempre anti papalino.

Nazionalismo copiato

Il varo di Prima l’Italia va nella scia di tutti i nazionalismi della storia contemporanea e moderna. Il comunitarismo, con digressioni sul tribalismo campanilista delle valli del varesotto e del bergamasco, l’illusione del “ghe pensi mi”, del faccio tutto da solo, senza bisogno dello Stato, ossia della dimensione solidarista (sebbene a tratti coatta).

Nulla di nuovo, una azione che si muove nel solco dei nazionalismi autoritari e autarchici del Novecento, dell’estrema destra degli anni Ottanta e del neo-conservatorismo thatcheriano, e del rigurgito nazionalista di inizio Duemila e ancora in voga.

Prima l’Italia non è un nuovo partito, né un partito nuovo, è una sigla. Riecheggia il nazionalismo di Reagan e Trump, il comunitarismo nazionalista di Marine Le Pen e della nuova destra europea anni Ottanta, ma non propone niente di originale. Neanche rispetto a sé stessa, ossia alla Lega Nord. Il senatore Salvini non è intervenuto sulla cultura politica del partito, sulla sua ideologia, l’ha semplicemente scavalcata, senza alcuna elaborazione. Non c’è stata nessuna “Bolognina”, nessuna “Fiuggi”, nessuna “Pontida 3.0, e perciò nessuna reazione. E fino ad ora nessuna scissione.

Solo una rimozione collettiva – né forzata, non discussa, non combattuta, come tutti i passaggi di fase. Una cancel culture tipica dell’Est Europa posa comunista dove lo spirito e il sentimento anti-Unione sovietica sono assimilati e associati all’espunzione del processo rivoluzionario di liberazione dallo zarismo.

Le mosse sbagliate

Dai fumi del Papete in poi Salvini ha sbandato, ha perso il momentum, ha smarrito la strada. Dopo la sconfitta parlamentare e l’uscita dal governo Conte I e la marginalità in quello successivo, con l’esecutivo Draghi in realtà Salvini si è trovato molto più a disagio di quanto lasci trasparire e trapelare.

Gli hanno imposto di accettare una opzione innaturale, costretto tra l’incudine di scelte per lui impopolari e la voglia di rimanere anti-tutto.

Oscillando tra il massimalismo leghista, essendo sfidato da Fratelli d’Italia sugli stessi temi, e perché Giorgia Meloni alleandosi con i polacchi del Pis che sono anti-russi si è trovata nella giusta collocazione; e la voglia di percorrere la strada di un partito personale, da cui deriva il cambio recente del simbolo. Che è il falso tema, posto che il partito è molto simile nelle corde alla Lega d’antan perché i cambiamenti non sono stati elaborati, ma solo annunciati.

Il 34 per cento delle europee del 2019 è un mesto ricordo, una chimera, irraggiungibile, un capitale disperso per sempre e il 2023 è dietro l’angolo con lo spettro del risultato a una cifra. I quadri del partito hanno smesso di scommettere su Salvini che ora è un peso per la Lega, anche se è troppo tardi per disfarsene. Un risultato sotto al 10 per cento è una solida prospettiva. Frutto di un’azione iconoclasta e apostata.

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