Non importa che si tratti di un videomessaggio all’alleato postfranchista spagnolo, o di un venturo vertice di maggioranza per sigillare una riforma spinta della Costituzione. I segnali vanno in direzione di Roma o dell’Europa, ma in comune hanno tutti la stessa cosa: Giorgia Meloni vuol prendersi più potere che può. «La pietra rimane pietra», come ha detto del resto la premier nel definire sé stessa.

Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha dedicato al giorno della memoria parole che possono essere declinate non solo al passato ma al futuro: «Il culto della personalità e del capo sono stati virus micidiali», ha detto. Questo sabato la segretaria dem Elly Schlein, nel raduno di Cassino, gli ha quasi fatto eco: «La destra vuole il capo solo al comando».

E Giorgia Meloni, in tutto questo? A parte qualche sforzo concentrato sui negoziati interni alla maggioranza, per inasprire appunto il più possibile il proprio progetto del premierato, la premier fa la pietra, ovvero tace: nelle parole dedicate al giorno della memoria, Meloni ha infilato un riferimento al nazifascismo; ma i moniti del presidente della Repubblica cadono perlopiù inascoltati.

Anzi da presidente dei Conservatori europei, e da apripista dell’alleanza tra estrema destra e popolari, questo sabato la premier ha pure dato man forte a Santiago Abascal, il leader della formazione postfranchista spagnola. La rielezione di Abascal alla leadership di Vox rilancerà questa formazione «in vista delle europee, che devono trovarci pronti a dare all’Unione europea il cambio di rotta che aspettiamo da tempo»: Meloni dixit.

Concentrazione di potere

«Il perimetro della nostra libertà è delimitato dal grado di potere che sapremo conquistare»: questa era già nel 1990 l’affermazione programmatica di Viktor Orbán, l’amico di Meloni, che dal 2010 ha stretto l’Ungheria nella sua morsa. I «pieni poteri», Orbán se li è presi in svariati modi, che vanno dallo stato di emergenza ripetuto al controllo de facto di società ed economia.

Matteo Salvini, il leader leghista col quale Meloni al governo si accompagna, lo aveva anche detto spudoratamente, nell’estate 2019, nota come “l’estate del Papeete”, che poi ha innescato una crisi di governo: «Chiedo agli italiani di darmi pieni poteri per fare le cose fino in fondo».

Mentre però Salvini pare condannato – lo dicono anche le proiezioni sul voto di giugno – alla subalternità rispetto a Fratelli d’Italia, e se è vero che Orbán ormai deve sperare in Meloni per entrare nei Conservatori europei e ritrovare capacità di influenza in Europa, Giorgia Meloni invece ha oggi capacità di manovra. Anche per questo, in vista della scadenza del 5 febbraio entro la quale vanno presentati gli emendamenti in commissione Affari costituzionali del Senato, la premier spinge ancora più in là la sua idea di premierato.

Un’ipotesi che piace molto a Fratelli d’Italia elimina anche l’opzione del “secondo premier” e lascia come alternativa solo il voto: nel caso in cui il premier venga sfiduciato, al parlamento non resta neppure lo scenario di individuarne uno che sia espressione della stessa maggioranza; il legame con gli eletti, che nell’odierna forma di governo parlamentare è vitale, verrà sempre più reciso.

Chi arginerà il capo?

Tutto ciò entra ora nei negoziati di maggioranza, il cui vertice dovrebbe tenersi la prossima settimana: mentre la Lega spinge sull’autonomia, i Fratelli d’Italia giocano al rialzo sul dossier a loro caro, ovvero appunto il premierato.

Oltre ai negoziati interni alle destre, quali freni ci sono? I terzopolisti spingono per una proposta alternativa, il che implica comunque discutere l’opzione. Schlein riscalda i motori per le europee e stigmatizza «il capo solo al comando». Il discorso di Mattarella appare in tutto questo come un lucido promemoria: «Il culto della personalità e del capo» è tra i «virus micidiali che si sono diffusi rapidamente, contagiando gran parte d’Europa», per citare il suo intervento in occasione del giorno della memoria.

Ha scritto la politologa Nadia Urbinati su questo giornale che Meloni «sta tentando di vendicarsi della Costituzione antifascista del 1948 e vuole seppellire il sistema parlamentare - che prevede lo scioglimento anticipato delle Camere - tradendo la rappresentanza in favore di un conteggio arbitrario dei seggi della maggioranza». Il presidente della Repubblica mantiene una postura dritta e ferma proprio riguardo a quella Costituzione, e all’antifascismo che la fonda: la presenza davanti a lui di Ignazio La Russa, un presidente del Senato che vantava di avere i memorabilia di Mussolini in casa, non lo ha scoraggiato dall’affermare venerdì – citando Primo Levi – che sono «le tirannidi fasciste in Europa» a costituire il fondamento della «storia di deportazioni e campi di concentramento».

Mattarella ha anche ricordato che «durante il fascismo l’Italia adottò le ignobili leggi razziste». Anche la premier, tuttora silente sui fatti di Acca Larentia dei quali si parla pure all’Europarlamento, ha inserito nella sua nota di sabato un riferimento al «disegno criminale nazifascista».

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