Il paradosso della strategia rischiatutto di Matteo Salvini è la ripartenza da sud. Proprio lui, erede di chi ha sventolato per decenni la bandiera dell’indipendenza padana e, ancora oggi, illustra l’autonomia differenziata come il vettore verso un’Italia migliore.

Fatto sta che Salvini ha posto giovedì la sua prima pietra, politica, della campagna elettorale: c’è stato il via libera, arrivato dalla società Ponte sullo Stretto, alla grande opera che dovrà collegare Calabria e Sicilia. Una relazione accolta con grande entusiasmo. «Per me è una grande soddisfazione», ha subito commentato.

Lotta per la sopravvivenza

Le europee sono alle porte e bisogna raggranellare consensi. E non di solo Ponte può sopravvivere Salvini. Ci sono infatti da curare la comunicazione e le alleanze così come le candidature e l’organizzazione interna del partito. Di fronte alla sfida del voto di giugno, una specie di lotta per la sopravvivenza, non mancano gli affanni.

Gli alleati, nei conciliaboli da Transatlantico, non sono teneri nei giudizi. Se riconoscono a Salvini la sostanziale certezza di restare in qualunque caso alla guida del partito, «bisogna che la Lega esista ancora», è il ragionamento fatto da più parti. In questa direzione rientra la battaglia salviniana sulla conversione alla Camera del decreto Milleproroghe.

Gli emendamenti sull’uso del taser per la polizia locale, esteso a tutti i comuni sopra i 20mila abitanti, e quello sullo stop alle multe ai No-vax sono due snodi che confermano la volontà di portare avanti le battaglie in parlamento. Costringendo gli alleati a inseguire.

Su questo punto i leghisti hanno motivi per gioire: a conti fatti hanno portato a casa più degli altri gruppi, in termini economici oltre che di rivendicazione politica, come nel caso dell’esenzione sull’Irpef agricola. Solo che serve un passo in avanti per evitare la fuga solitaria di Giorgia Meloni verso la leadership assoluta della coalizione.

Tradotto: la Lega deve almeno avvicinarsi alla soglia del 10 per cento, preferibilmente superarla. Salvini non conosce altri mezzi se non quello dello scontro. «Facciamo come Fratelli d’Italia quando era all’opposizione di Draghi», spiega un big del partito. Un annuncio di battaglia a tutto campo, anche se «non siamo degli sfasciacarrozze», tengono a precisare i salviniani.

Ed ecco che è partita, lancia in resta, la sfida per il terzo mandato dei presidenti di regione. Salvini, insieme ai suoi, ha individuato ulteriori punti chiave per le europee: l’agricoltura, che peraltro è una questione in cui l’Ue ha un elevato peso specifico.

Nelle prossime settimane vuole cavalcare la protesta dei trattori, lustrando un populismo d’antan. Ma la Lega vuole arare anche altri campi, come quelli economici sugli incentivi da dare alle imprese rafforzando il posizionamento da “opposizione nella maggioranza”. Un ossimoro politico, e un avviso sull’attuazione del Pnrr (il decreto ad hoc è slittato ancora).

Candidati acchiappavoti

C’è poi il tema delle candidature che si intreccia con la strategia delle intese politiche. A Montecitorio, come anticipato dal Foglio, Salvini è disposto a fare un sacrificio per accontentare il leader dell’Udc, Lorenzo Cesa, suo papabile compagno di viaggio alle europee e oggi deputato iscritto a Noi Moderati.

Il piccolo partito dello scudo crociato vuole formare una componente nel gruppo Misto e ha bisogno di due deputati: Giampiero Zinzi e Antonino Minardo, eletti con la Lega, sono destinati a finire “in prestito” all’Udc. Così Cesa può staccarsi dal partito di Maurizio Lupi e mettersi in proprio.

Sembra un bizantinismo parlamentare, ma dietro c’è un risvolto economico e politico: la componente consente di avere qualche risorsa finanziaria aggiuntiva, erogata dalla Camera, utile ad assumere staff e avere una maggiore visibilità nei tempi di intervento. Mentre, di converso, la Lega perderebbe soldi: ogni eletto alla Camera garantisce un trasferimento di circa 70mila euro (versati da Montecitorio) all’anno.

L’operazione è in corso, spiegano a Domani fonti parlamentari, non ancora ultimata. Non tutti nella Lega sono convinti, proprio per le ricadute sul bilancio del gruppo. D’altra parte Cesa serve al vicepremier per portare quella dote di voti, soprattutto al sud, dove è stato arruolato pure “mr. preferenze” in Molise, Aldo Patriciello, finora eurodeputato di Forza Italia.

«Ce lo siamo fatti sfilare senza colpo ferire, nonostante parliamo di uno che può prendere anche 100mila voti», si lamenta un deputato di FI. Una dote trasferita al partito di Salvini, che continua a corteggiare Roberto Vannacci, giudicato indispensabile per fare incetta di voti. Nella circoscrizione nord-est c’è poi chi accarezza l’idea di far candidare il presidente della regione Veneto, Luca Zaia, ma senza mandarlo in Europa.

Può restare nelle vesti di presidente, dopo aver mostrato nelle urne la sua forza. Così da mandare un messaggio agli alleati di Fratelli d’Italia per le regionali. Sono suggestioni, al momento, che però escono fuori dai piani alti leghisti.

Intanto Salvini ha rimesso mano alla squadra, almeno per la parte che riguarda il rapporto con gli enti locali. Con la nuova struttura il deputato lombardo Stefano Candiani deve di gestire il nord, il parlamentare umbro Riccardo Marchetti ha il compito di guardare alle regioni centrali, mentre il potente sottosegretario al Lavoro, Claudio Durigon, dovrà sbrigare la partita al sud, diventata sua area di competenza.

Dopo aver lasciato la guida nel Lazio, passata al consigliere comunale a Roma, Davide Bordoni, Durigon è stato nominato anche commissario regionale al posto di Annalisa Tardino, indicata come capolista nella circoscrizione isole. Di fatto un commissariamento di Stefano Locatelli, finora responsabile del dipartimento enti locali: ora gli resta solo la funzione di coordinamento. Insomma, squadra che perde si cambia. Perché un’altra sconfitta sarebbe intollerabile.

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