Anche lunedì è arrivata la quotidiana risposta alla quotidiana domanda che viene rivolta dai cronisti a Elly Schlein sulla sua possibile corsa per le europee. Stavolta su La7: «Non ci sono novità, sono stata chiarissima sin dal principio: prima il progetto, poi la squadra».

Allora la domanda diventa: quando arriva il progetto, premessa per la famosa squadra, capitano o capitana compresa? La risposta non c’è ancora, e quella che c’è è un rompicapo: è difficile compilare le liste senza partire dalla testa, cioè senza sapere chi le guida.

Dopo poco Schlein è volata a Strasburgo. I suoi impegni in agenda: una cena con la delegazione del Pd, occasione per rassicurare tutti gli uscenti e calmare le acque in un gruppo che si sente un po’ trascurato proprio alla vigilia del nuovo voto.

E oggi, alle 18 e 30, l’incontro con il gruppo dei Socialisti e democratici. Con i partiti fratelli deve discutere del prossimo congresso del Pse a Roma, il 2 marzo. Il Pd farà da padrone di casa. In quell’occasione verrà incoronato lo Spitzenkandidat, il candidato presidente socialista.

Sarà il lussemburghese Nicolas Schmit, attuale commissario europeo per il Lavoro, padre della direttiva europea sul salario minimo, anche se non precisamente una personalità trascinante. Con il suo nome, sarà ufficializzato il “manifesto” del Pse per la prossima sfida elettorale. Una serie di punti comuni, dall’immigrazione all’Europa politica, che faranno da stella polare dei programmi dei partiti nazionali.

Da lì difficile trovare argomenti validi per tergiversare ancora: il Pd dovrà scrivere il proprio «progetto» e comporre la «squadra», e la segretaria dovrà decidere – c’è chi sostiene che il verbo giusto è “comunicare” – la natura del suo impegno personale nella sfida. C’è chi dice che la data dell’«annunciazione» sia proprio il 2 marzo. Ma anche chi lo esclude: dato il livello europeo dell’iniziativa, «sarebbe una sgrammaticatura».

La squadra dal cilindro

Cosa uscirà dal cilindro di Schlein resta un argomento tabù al Nazareno. Lei si confronta poco e quel poco che confida è vago. Il che lascia nell’incertezza gli aspiranti alla corsa del 9 giugno, europarlamentari uscenti compresi. Fuori dal cerchio dei determinati alla corsa, serpeggia la demotivazione.

Si sfila anche chi accetterebbe di correre se il partito avesse dato segnali chiari di interesse. È il caso di Nicola Zingaretti, che la settimana scorsa ha fatto il gran rifiuto: «Darò un contributo come presidente della fondazione Demo, come militante e come dirigente. Ma faccio il parlamentare italiano, questo è il mio ruolo e lo sarà».

La segretaria mantiene le carte coperte e ostenta tranquillità. Ma c’è un primo obiettivo comprensibile quando parla di «squadra». Al momento quasi tutti i “big” che si preparano a correre non fanno parte della maggioranza uscita dalle primarie. Lei invece deve fare in modo che la nuova delegazione di Bruxelles sia, se non a sua immagine e somiglianza, almeno nell’onda del nuovo Pd.

E invece fin qui, scorrendo i candidati naturali delle cinque circoscrizioni, gli eletti sicuri o ragionevolmente probabili sono tutti esponenti riformisti. Al sud in particolare, la segretaria non ha sua classe dirigente in grado di uguagliare i pesi massimi del consenso, dal presidente della Puglia Michele Emiliano al sindaco di Bari Antonio Decaro, al presidente campano Vincenzo De Luca.

Nomi da schierare

L’idea dunque sarebbe quella di schierare in ogni circoscrizione uno e due nomi espressivi del nuovo corso dem, esterni o interni al partito. Così al nord ovest, dove si presenta il capodelegazione uscente Brando Benifei, è in campo Cecilia Strada e sempre più probabile Andrea Orlando; al nord est, dove c’è Stefano Bonaccini, ma anche le uscenti Alessandra Moretti e (forse) Elisabetta Gualmini, Schlein vorrebbe candidare Alessandro Zan, attivista dei diritti civili e vicino alla segretaria; al centro, dove sono certi in corsa già i sindaci di Firenze Dario Nardella e di Pesaro Matteo Ricci (non hanno votato per lei alle primarie ma non le sono ostili) potrebbe convincere Fabrizio Barca, ex ministro del Sud e coordinatore del Forum disuguaglianze diversità, con cui da attivista Schlein ha a lungo collaborato; nel sud conta sull’ex giornalista Sandro Ruotolo (e sulle divisioni dell’elettorato di De Luca, anche se è difficile che riuscirà a convincere Piero De Luca a candidarsi); e infine nelle isole punta su Pietro Bartolo, il medico di Lampedusa stravotato allo scorso giro e pronto a ricandidarsi.

Ma tutto questo meccanismo resta un castello di carte se prima non viene deciso il capolista. Ai possibili candidati non resta che aspettare, ed esercitarsi all’interpretazione dei segni. Certo alcuni sembrano eloquenti. Ogni giorno si capisce che Giorgia Meloni ed Elly Schlein cercano lo scontro frontale.

Lunedì la segretaria ha accusato la premier di aver «gravemente tardato» ad attivarsi sul caso di Ilaria Salis, l’Italiana detenuta a Budapest. E la premier, nonostante fosse a Tokyo impegnata in una missione anche delicata, le ha risposto sarcastica: «Se lei è più brava di noi, sicuramente saprà cosa fare».

Controreplica di Schlein: «Si dimentica che al governo c’è lei. Il paese aspetta risposte da lei». Botta e risposta, duello anche a distanza. Schema perfetto per due leader in battaglia. In entrambi casi all’insaputa dei propri eserciti.

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