Per decenni, l’Arabia Saudita è stata associata all’intransigenza religiosa e all’esportazione dell’islamismo e soprattutto del salafismo. A partire dal regno di re Abdallah (2005-2015), quest’eredità ha iniziato a essere ripensata, per essere messa chiaramente in discussione nell’ultimo quinquennio.

Il 2017 può infatti essere considerato un anno spartiacque: con la nomina a principe ereditario di Mohammad bin Salman (MbS), figlio di re Salman e da qualche giorno primo ministro del regno, sono letteralmente saltati i termini che, per molto tempo, hanno composto l’equazione dello stato saudita.

Il giovane principe ha attuato una serie di riforme che stanno cambiando profondamente la società. Alcune hanno generato degli effetti immediati e visibili – per esempio la possibilità per le donne di guidare, la fine della rigida separazione dei sessi o l’apertura del paese al turismo – trasformando lo stile di vita dei cittadini. Altre hanno fatto meno rumore, molte sono addirittura passate sotto silenzio in occidente, ma sono potenzialmente rivoluzionarie.

Questo processo può essere considerato un’imponente operazione di rebranding del paese, che chiude definitivamente l’epoca in cui l’islam era l’identità fondante dello stato e la sua principale risorsa simbolica.

La strada del rinnovamento

Il nazionalismo islamico, che ha dominato il regno sin da prima della creazione dell’attuale stato saudita, avvenuta nel 1932, ha fatto da collante tra le diverse tribù che abitavano il territorio, contribuendo a generare un senso di appartenenza collettiva. Successivamente, negli anni Cinquanta e Sessanta, nel contesto della cosiddetta “guerra fredda araba” tra repubbliche progressiste e monarchie conservatrici, l’Arabia Saudita ha rivendicato, contro le tendenze arabiste e socialiste, la propria leadership islamica globale in qualità di custode dei luoghi sacri di Mecca e Medina, promuovendo un’identità pan islamica transnazionale attraverso l’esportazione dell’islamismo e del salafismo.

Ciò è avvenuto soprattutto attraverso due istituzioni: l’università islamica di Medina e la Lega musulmana mondiale, fondate rispettivamente nel 1961 e nel 1962. Oggi, a distanza di sessant’anni, la missione e le prerogative di entrambe sono profondamente cambiate.

Nel corso degli anni, dall’università islamica sono stati espulsi tutti i professori legati alla Sahwa, il movimento islamista nato negli anni Sessanta dall’incontro tra il wahhabismo saudita e i Fratelli musulmani egiziani e siriani, giunti nel regno per sfuggire alle persecuzioni a cui erano sottoposti nei loro paesi d’origine. Coinvolti inizialmente nella costruzione istituzionale dello stato, e in particolare del suo sistema educativo, gli islamisti sono caduti in disgrazia quando hanno iniziato a contestare le scelte politiche della monarchia, a partire dalla decisione di appellarsi agli Stati Uniti per respingere la minaccia rappresentata dall’Iraq di Saddam Hussein all’epoca dell’invasione del Kuwait.

Oggi, nonostante la presenza degli islamisti nel regno sia ormai residuale, essi continuano a essere il bersaglio delle misure messe in atto da MbS, fortemente ostile a qualsiasi forma di dissenso e attivismo politico.

La Lega musulmana, dopo essere stata il principale veicolo della da‘wa, la predicazione islamica globale, ha visto compromesso il proprio prestigio in seguito agli attentati dell’11 settembre, ma sta vivendo oggi un momento di rinnovata visibilità ed è diventata uno dei principali veicoli della nuova narrazione religiosa di MbS.

A essa spetta il compito di riabilitare la reputazione dell’Arabia Saudita all’estero, promuovendo l’«islam moderato» a cui l’erede al trono ha fatto più volte riferimento e che è menzionato anche nella Vision2030, il piano di sviluppo socio economico lanciato dal principe nel 2017.

Figura centrale del nuovo corso è il segretario generale della Lega, Muhammad al-‘Issa, che con il suo coinvolgimento in numerose iniziative di dialogo interreligioso è diventato il volto del rinnovamento dell’islam saudita.

La pesante eredità wahhabita

In effetti, l’eredità wahhabita ha procurato non pochi problemi al regno, finendo per essere associata in più di un’occasione alla violenza jihadista. Ciò è accaduto negli anni Ottanta, quando migliaia di giovani sauditi, reclutati dal fondatore di al-Qaida Osama bin Laden, hanno preso parte al jihad in Afghanistan contro l’Urss, anche se all’epoca era lo stesso stato saudita a favorire le partenze dei combattenti. Ed è accaduto anche negli anni Novanta, quando il terrorismo jihadista è esploso all’interno del regno contro obiettivi occidentali e militari; poi nel 2001, in seguito all’attacco alle Torri Gemelle e al Pentagono (quindici attentatori su diciannove erano infatti sauditi); e ancora nel 2014 con la nascita dello Stato islamico, i conseguenti attentati in occidente e le violenze commesse dai suoi militanti ai danni degli stessi musulmani sulla base del takfīr, l’accusa di miscredenza, una nozione che ha fatto particolarmente fortuna nei circoli salafiti.

Oltre a indisporre le cancellerie e le opinioni pubbliche straniere, l’intransigenza wahhabita ha avuto delle conseguenze anche all’interno del paese. Il clero conservatore è infatti responsabile delle rigide norme sociali che per decenni hanno limitato fortemente la libertà delle persone. Quest’insieme di fattori concorre a spiegare la volontà della famiglia reale di superare il wahhabismo.

In quest’ottica, la monarchia ha accresciuto il controllo dello stato sulla religione e depotenziato diverse istituzioni wahhabite. Tra queste, il Comitato per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio (noto anche come “polizia religiosa”), incaricato di far rispettare la moralità pubblica, è stato privato dei suoi poteri d’arresto nel 2016, mentre il Consiglio degli Ulema, il più importante organo islamico nazionale, ha visto declinare la sua influenza e oggi partecipa passivamente alla trasformazione del paese avallando con le sue fatwe le politiche dei governanti.

Riforme pubbliche

A questo si aggiunge il tentativo di limitare l’incidenza pubblica dell’islam. Si collocano in questa linea l’intenzione di ripensare i fondamenti della giurisprudenza islamica e riformare il sistema giudiziario del paese, espressa da MbS nel corso di un’intervista televisiva rilasciata nell’aprile del 2021, e l’iniziativa di abbassare il volume dei megafoni delle moschee, lanciata nel giugno dello stesso anno dal ministero degli Affari religiosi.

Queste politiche di de islamizzazione dello spazio pubblico sono andate di pari passo con la creazione di un mercato dell’intrattenimento, quasi inesistente fino al 2018. Per molti anni, infatti, le uniche fonti di svago dei sauditi sono stati gli eventi organizzati dal governo per celebrare la storia e le tradizioni del paese, le feste private e i fine settimana nel più liberale Bahrein, dove erano soliti recarsi i residenti della provincia orientale e di Riad.

In pochi anni però molte cose sono cambiate: nella capitale è stato aperto un cinema, alle donne è stato consentito assistere alle partite di calcio nello stadio di Gedda, concerti e persino rave party con cantanti e dj provenienti da ogni parte del mondo sono ormai all’ordine del giorno, mentre il Fondo d’investimento pubblico (Pif), tra i maggiori fondi sovrani al mondo, sta finanziando la costruzione di al-Qiddiya, una città per l’intrattenimento, lo sport e la cultura situata a circa 40 km da Riad.

All’inizio del 2022 inoltre un decreto reale ha istituito una nuova festività nazionale, il Giorno della fondazione, per ricordare la nascita del primo regno saudita. La grande novità è che la data a cui viene fatto risalire questo evento è il 1727 e non più il 1744, l’anno in cui Muhammad Ibn Saud e Muhammad Ibn ‘Abd al-Wahhab hanno suggellato il patto di cooperazione tra dinastia saudita e chierici wahhabiti sul quale fino a oggi si è fondato lo Stato.

Il 1727 è invece l’anno in cui Muhammad Ibn Saud ha assunto il potere, stabilendo a Dir‘iyya, corrispondente oggi alla parte antica di Riad, il primo nucleo dei futuri stati sauditi. Con questa decisione MbS riscrive la storia del paese e promuove una nuova identità nazionale, svincolandola da quella religiosa.

Nel loro complesso, queste riforme sono finalizzate a consolidare la monarchia attraverso un crescente accentramento dello stato e a creare le condizioni necessarie per attuare il piano di modernizzazione contenuto nella Vision2030. Abbandonato il progetto di imporsi innanzitutto come custode dell’ortodossia sunnita, l’Arabia Saudita punta oggi a diventare una meta privilegiata non solo dei pellegrini musulmani, ma anche di investitori e turisti.  

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