Il Nagorno-Karabakh è di nuovo in fiamme, dopo l’ultimo attacco lanciato contro la provincia a maggioranza armena dall’Azerbaigian, che ne rivendica il controllo da ormai trent’anni. Dopo sole 24 ore, Baku ha ottenuto la resa dell’enclave grazie a una forza militare nettamente superiore rispetto agli avversari e ai loro sostenitori. Una capacità bellica ottenuta grazie a ingenti investimenti nella difesa - quasi il 5 per cento del Pil nel 2020 - e al prezioso contributo dell’Italia, che ha tutto da perdere nel condannare il comportamento del governo di Ilham Aliyev.

A legare così strettamente Roma e Baku sono due settori, tra di loro interrelati: quello energetico e quello militare. L’Azerbaigian è il secondo fornitore di gas dell’Italia, ma allo stesso è un importante importatore di materiale bellico made in Italy.

A guadagnare dagli affari in ambito militare è prima di tutto la Leonardo, azienda detenuta in parte dallo stato e che vanta diversi accordi con l’Azerbaigian. Solo pochi mesi fa, a giugno, Baku ha comprato da Leonardo un numero imprecisato di C-27J Spartan, aerei per il trasporto truppe e per le operazioni di supporto, ma sul tavolo c’è da tempo un contratto per l’acquisto del jet di addestramento M-346, impiegabile anche in operazioni sul campo.

La lista di armi e armamenti venduti da Leonardo a Baku non si ferma qui e altre aziende hanno intenzione di continuare a fare affari con un paese che ha fatto del rafforzamento del proprio esercita una priorità negli ultimi anni. Con l’obiettivo di riprendersi militarmente il territorio del Nagorno-Krabakh, come appena fatto.

La legge

Vendere materiale bellico a un paese in guerra o in stato di conflitto, però, non sarebbe possibile secondo la legge 185/90 che regola l’export militare, per cui gli affari tra Roma e Baku rischiano in teoria di subire un repentino peggioramento. Ma nella pratica non sarà così. Attualmente è in discussione in parlamento un ddl per modificare la norma sulle esportazioni militari che farebbe il gioco delle aziende che vogliono continuare a commerciare con i governi in guerra.

La riforma infatti rimette il potere decisionale sulle autorizzazioni all’export nelle mani del governo, esautorando l’ufficio fino ad oggi predisposto a questo compito (l’Uama). Una tempistica perfetta e che consentirà all’Italia di continuare sulla strada percorsa fino ad ora, senza tener conto del comportamento di Baku e dei morti provocati da questa guerra.

A confermarlo è anche il ministro della Difesa Guido Crosetto, che in un’intervista rilasciata alla Stampa di meno di un mese fa aveva parlato dei dubbi di alcuni alleati sul continuare ad avere rapporti con Baku, soprattutto nell’ambito della difesa. Per Crosetto però «se si sceglie una linea, dobbiamo andare fino in fondo, anche se qualche alleato non è contento».

Il gas

D’altronde l’Italia avrebbe molto da perdere da una rottura dei rapporti con l’Azerbaigian. Baku è il secondo fornitore di gas dopo l’Algeria, con una quota del 15 per cento, e Roma sta aspettando il via libera dell’Ue per avviare il raddoppio del Tap, il gasdotto che collega il giacimento azero di Shah Deniz con San Foca, in Puglia. Un progetto criticato dagli attivisti per l’impatto ambientale e rivelatosi meno utile a liberarci dalla dipendenza della Russia rispetto al previsto.

Come dimostrato dagli analisti dell’Economist Intelligence, l’Azerbaigian è riuscita ad aumentare la quantità di gas esportato verso l’Europa proprio grazie alle importazioni dalla Russia, per cui è molto probabile che i prodotti russi abbiano ancora una volta alimentato il mercato italiano ed europeo. Il raddoppio del Tap però non è mai stato messo in discussione, con benefici ancora una volta anche per Leonardo che nel 2017 ha siglato un accordo per incrementare la sicurezza fisica e cyber del gasdotto con Socar, la società petrolifera dell’Azerbaigian che guida la costruzione del Southern Gas Corridor di cui fa parte il Tap.

A celebrare questo raddoppio è stato lo stesso presidente azero. In un’intervista rilasciata un anno fa al Sole 24 Ore, Aliyev ha lodato le aziende italiane che avevano iniziato a lavorare nelle aree del conflitto “liberate” e promesso una pace con l’Armenia che non solo non è mai arrivata, ma che ha è stata sostituita da un ennesimo conflitto. Grazie anche ai soldi e alle armi italiane. Oltre alla connivenza di vari governi di diversi colori.
 

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