L’immagine rimanda al convitato di pietra, peraltro assai poco invisibile: la sua incombente presenza è scolpita persino nell’iconografia che fa da sfondo all’incontro di Beirut tra il leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, il vice di Hamas Saleh Aruri e il capo della Jihad islamica Ziad Nakhale.

Nella stanza del leader del Partito di Dio, infatti, campeggiano i ritratti di Khomeini e di Khamenei, rispettivamente fondatore della Repubblica islamica d’Iran e l’attuale guida, simbolo di un legame storico ancora forte.

Del resto, Hezbollah nasce nel 1982 per impulso dei chierici, iraniani e libanesi, formatisi nei seminari teologici di Najaf, la città irachena dove, negli anni Sessanta, l’esiliato Khomeini mette a punto quella vera e propria rottura con la tradizione religiosa sciita costituita dalla dottrina del velayat e-faqih, il governo del dotto islamico.

Dottrina destinata a misurarsi “qui e ora” – non nel futuribile e, temporalmente incerto, avvento messianico legato al ritorno del Mahdi, il dodicesimo e ultimo imam della shi’a, fulcro della teologia alide – con il nodo del politico nell’Islam contemporaneo.

Una rottura della tradizione – memorabili gli scontri, tra gli austeri muri delle scuole religiose della città, tra Khomeini e il suo principale oppositore, l’ayatollah Sistani, convinto difensore della via impolitica seguita da secoli dalla comunità sciita – sfociata in seguito nell’Iran governato dai turbanti, destinato a influenzare gli equilibri del Medio Oriente e non solo.

La solidità di un patto

È questo, costitutivo, legame tra khomeinismo delle origini e Partito di Dio, prima ancora che quello tra Iran e Hamas e la Jihad islamica, a costituire il nocciolo duro della crisi attuale. Se con i gruppi islamisti palestinesi, il sunnita Hamas e la “sincretica” Jihad – per quest’ultima formazione le differenze religiose tra sunniti e sciiti non sono fondamentali – l’alleanza si fonda sull’inimicizia assoluta verso Israele e la rilevanza assegnata alla difesa di Gerusalemme come luogo santo dell’islam, con Hezbollah il legame è religioso, dottrinale, politico, oltre che geopolitico. Garanzia di un rapporto che difficilmente può spezzarsi.

Ma, come tutti i regimi, anche quello iraniano ha un imperativo: riprodursi, continuare a esistere. Al di là dei roboanti proclami, la sua azione è ispirata, da tempo, dal realismo politico.

Realismo, in questo specifico caso, non significa che le originarie posizioni ideologiche della Repubblica islamica siano del tutto tramontate, ma che sono, pragmaticamente e spregiudicatamente, temperate dal carattere funzionale di quello stesso imperativo.

L’originaria volontà di potenza di matrice panislamista, prendere la guida della Mezzaluna unificandola nell’impossibile assalto al cielo del potere mondiale, si è infranta nel suo stesso essere sciita, fattore non secondario in un universo quasi totalmente sunnita.

Oltre che sulle barriere erette dagli Stati Uniti dopo la caduta dello scià e il lungo sequestro del personale della loro ambasciata a Teheran. Anche con le trincee scavate, nella guerra per procura, condotta dall’Iraq di Saddam Hussein allora alleato di Washington. Conflitto che immobilizzerà per otto anni l’Iran, tarpandone comunque le velleità rivoluzionarie.

Dopo la fine di quella guerra, non persa ma non vinta, e la morte di Khomeini, l’Iran non dismette ma “depotenzia” – con l’eccezione del periodo Ahmadinejad che rilancia strenuamente antisionismo e antimperialismo, non a caso poi emarginato dal clero conservatore che lo ha utilizzato per fermare i riformisti ma non intende mettere a repentaglio il regime nello scontro aperto con Usa e Israele – quel bagaglio ideologico, avendo come stella polare il riconoscimento del proprio ruolo di potenza regionale e di attore a pieno titolo della scena energetica internazionale.

Non è casuale che, a dare forma a quest’anima realista non siano solo le fazioni riformiste, decise a evitare il conflitto con gli Usa e a “riorientare” il sistema ma, sul versante opposto, anche i Pasdaran, quei guardiani della rivoluzione, che pure, come indica il loro stesso nome, dovrebbero interpretare con maggiore aderenza il ruolo di custodi del lascito khomeinista.

In realtà i Pasdaran, divenuti nel corso del tempo sempre più potenti militarmente e politicamente – anche la recente “rivolta del velo” consegna agli elmetti il ruolo di garanti ultimi della riproduzione del sistema – non vorrebbero correre il rischio di sacrificare il regime in nome della pur importante causa della Palestina o delle sorti di Hamas, che assistono sul piano militare e del quale hanno abbondantemente rifornito l’arsenale.

Formazione, come dimostra l’incontro “3+1” (dove il +1 è l’insigne assente/ presente, non solo figurativamente, nella stanza di Nasrallah, che in quella sede parla ai suoi interlocutori anche in vece dell’alleato-fondatore), alleata di Teheran ma che, in qualità di branca palestinese della Fratellanza, gode di un’autonomia politica non riducibile meccanicamente alla volontà iraniana.

Il ruolo del paese dei cedri

Il gruppo dirigente di Teheran, nella duplice veste religiosa e militare, non sembrerebbe volersi spingere oltre uno scontro controllato con gli israeliani, assimilabile a quelli che, periodicamente, si registrano ai confini libanesi, in Siria, o prima del 7 ottobre, a Gaza.

Diverso sarebbe il caso, oltre che di un attacco diretto di Israele, che nell’Iran vede una minaccia strategica per la propria esistenza, soprattutto se riuscisse a dotarsi dell’arma nucleare, di un’offensiva mirata alla distruzione di Hezbollah o destinato ad allontanarlo, come vorrebbe la nuova dottrina strategica di Tsahal sintetizzabile nella formula “il nemico irriducibile distante dai confini”, dal sud del Libano.

Operazione che, per ampiezza, e intensità, avrebbe un impatto ben superiore a quello della guerra del 2006 e che, questa volta, oltre a mettere a ferro e fuoco il paese dei cedri, nel quale la formazione di Nasrallah svolge un ruolo di governo, potrebbe, quanto meno, mettere a lungo fuori causa il partito di Dio.

Prospettiva tale da indurre l’Iran a reagire, se non altro per garantire la sopravvivenza dell’asse sciita che va da Teheran a Beirut via Damasco, garanzia di estesa influenza politica nella regione.

In un simile scenario, saturato da posizioni di principio e istanze non negoziabili, il rischio di allargamento del conflitto cresce a dismisura. Il fantasma, pur su diversa scala, di una crisi tipo 1914 – sfuggita di mano per deficit di gestione politica, oltre che per l’incapacità di controllare gli eventi e le responsabilità degli attori in campo, in particolare di quelli decisi a soffiare sul fuoco per realizzare i propri obiettivi – aleggia sulla scena. Mettendo gli schieramenti davanti al dilemma tragico rischio/sicurezza che può precipitare nella catastrofe.

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