L’attacco iraniano a Israele pone ora la questione, capitale, della risposta che il secondo intende dare, materializzando il temuto fantasma dell’allargamento del conflitto.

Dal punto di vista militare, quella di Teheran è stata una replica “simbolica” all’operazione condotta dagli israeliani su obiettivi iraniani in Siria. Non solo essa era stata annunciata, depotenziando l’effetto sorpresa, ma i vertici iraniani si erano anche premurati di far sapere agli alleati del “bersaglio” – persino al “Grande Satana” Usa protettore del “ Piccolo Satana” Israele –, che si sarebbe trattato di una rappresaglia limitata, diretta su obiettivi militari o su territori contesi, come, appunto, le basi del Negev e il Golan occupato.

La tecnica degli sciami impiegata nell’operazione Vadeh Sagheh (Autentica Promessa) può essere un serio problema per chi viene attaccato ma se questi, come Israele, dispone di sistemi di difesa tecnologicamente avanzati come Iron Dome e i missili Arrow , oltretutto coadiuvati dall’efficace copertura satellitare e radar degli Stati Uniti, e di aerei come gli F35, vanificarla non è troppo complicato.

Uno scudo che, come dimostrato dall’abbattimento quasi totale dei droni Mohajer-10 o dei più piccoli Shahed 136, e dei più veloci ma comunque intercettabili missili da crociera (solo quelli balistici hanno creato problemi) ha protetto efficacemente Israele.

Solo un maggiore dispiegamento di mezzi avrebbe impedito una simile debacle, ma la diversa scelta non pare imputabile alla loro penuria quanto alla natura “dimostrativa” dell’azione.

Chi comanda a Teheran

Perché, allora, Teheran ha condannato all’abbattimento centinaia di suoi vettori? Perché un tale dispendio di mezzi a fronte di risultati così limitati e rischi così elevati? Per l’Iran era importante mostrare “onore e coraggio”. E lavare l’onta dell’ennesimo schiaffo inflitto da Israele ai pasdaran, in una guerra, non dichiarata ma non per questo meno reale, che va avanti da molti anni.

Da tempo i Guardiani non sono più un’ancillare strumento del “sistema” ma, semmai, i custodi e i garanti dello stesso potere dei turbanti, che senza gli elmetti sarebbero già nella polvere. Non a caso, dopo l’attacco, è il comandante dei pasdaran Salami a parlare di «nuova equazione» che prevede la diretta risposta a Israele ogni qualvolta questi colpisca interessi, personalità, cittadini, beni, iraniani. Una “promessa” che vale, minacciosamente, anche per il futuro. E che rivela un cambio di paradigma dal preciso significato politico.

Come mostra la stessa mediazione raggiunta nel Consiglio supremo per la sicurezza nazionale – un’azione di guerra, ma non troppo – sfociata nella “notte degli sciami”, che conferma come a Teheran vi siano ormai due centri di comando: il clero un tempo rivoluzionario, sempre più debole e ormai prudente assertore del continuismo di regime, anche in politica estera, dove si preferisce un profilo basso che consenta di evitare scontri rischiosi; e i pasdaran, sempre più impegnati fuori confine, che sui rapporti con Usa e Israele chiedono voce in capitolo. E che su “Autentica Promessa” l’hanno avuta: sono loro a aver scelto l’entità dell’operazione.

L’attacco a Israele ha permesso all’Iran di mandare poi alcuni messaggi. Agli alleati delle Cinque H ( Hamas, Houthi, Hezbollah libanese, Hezbollah iracheni e siriani), per mostrare che la leadership dell’Asse della Resistenza non delega sempre loro lo scontro; al mondo islamico, a cui si è evidenziato come la bandiera della lotta all’ “entità sionista” è saldamente nelle mani iraniane.

Il nuovo paradigma emerso dal compromesso tra turbanti e elmetti, consente così all’Iran di affermare «per noi finisce qua» ma anche di specificare, secondo la nuova dottrina “equazionista” , che se vi fosse una reazione israeliana la risposta sarebbe ben più massiccia di quella data nella “notte dei droni”.

Le strategie israeliane

Ma avrà esito l’ennesimo tentativo di mettere la guerra in forma, di circoscriverla dopo l’inosabile che palesa l’incubo della dottrina di sicurezza d’Israele, fondata sulla convinzione che la sola, reale, minaccia strategica per la propria esistenza provenga dall’Iran più che da Hamas? Tentativo perseguito, con altre modalità, anche dagli Stati Uniti, che chiedono a Israele di non rispondere a Teheran, evitando una spirale tra duellanti che precipiti la regione, e non solo, in un conflitto incontrollabile.

Nel governo Netanyahu, infatti, abbondano i fautori della risposta dura, capace di ripristinare la deterrenza violata, insieme sempre militare e psicologica. Questo schieramento, rappresentato non solo dai leader della destra estrema nazionalreligiosa e kahanista ma anche da esponenti del Likud, è convinto fautore della politica del fatto compiuto e del principio “contare solo su noi stessi”. E non esclude la possibilità di uno scontro che possa condurre al collasso del regime di Teheran. Caduto il quale, è il ragionamento, sarebbero presto fuori gioco anche i proxy.

Insomma, la grande tentazione di Bibi potrebbe essere quella di approfittare della circostanza – qualcuno sostiene della trappola fatta scattare con il raid sul consolato iraniano a Damasco –, per venire definitivamente a capo della “questione iraniana”.

E proprio sullo scongiurare una simile tentazione si misurerà la capacità degli Stati Uniti di evitare la deflagrazione di un conflitto che avrebbe conseguenze, politiche, militari, economiche, disastrose. Biden, poi, ha un motivo in più perché non accada: non perdere le elezioni. La sua politica nei confronti di Israele è stata caratterizzata dal too little, too late, (troppo poco e troppo tardi). Qualche risultato sul versante umanitario del conflitto a Gaza, in un paesaggio segnato da immani tragedie, non muta tale constatazione.

Le paure di Biden

Nonostante le pressioni su Netanyahu, la stessa operazione Rafah resta in campo e lo spostamento al confine libanese delle truppe sin qui impiegate nella Striscia fa balenare l’ipotesi che Tsahal possa avviare un offensiva capace di costringere il Partito di Dio, l’alleato più stretto di Teheran, a ritirarsi almeno oltre il Litani.

L’atteggiamento verso l’Iran è la cartina torna sole del complicato rapporto tra Usa e Israele, messo alla prova dall’esigenza strategica americana di stare a fianco degli israeliani, pur condividendo poco o nulla della politica del suo governo. Un paradosso che rischia di generare l’impotenza della grande potenza, la perdita di legittimità provocata da un alleato, sostenuto militarmente e finanziariamente, che non tiene conto degli interessi di chi lo appoggia e protegge

. Situazione che non può essere giustificata nemmeno dallo speciale rapporto tra Usa e Israele. E che rischia di far precipitare nella sconfitta elettorale lo stesso Biden, senza sostegno dei musulmani e dei giovani americani, che non voteranno Trump ma nemmeno il presidente uscente per la sua politica nei confronti di Israele.

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