L’attacco, davvero senza precedenti, di Hamas a Israele ha molteplici obiettivi. Il primo, più evidente e drammaticamente tangibile nella contabilità delle vittime e nella capacità di penetrazione, è sfatare il mito di un “nemico” inattaccabile. Deltaplani e moto, pick-up e razzi, si sono mostrati capaci, pur nel contesto di una guerra decisamente asimmetrica, di mettere in crisi il sistema di difesa israeliano.

A partire da quello aereo Iron Dome, che mostra le sue falle di fronte ai migliaia di vettori lanciati da Gaza, e da un confine ritenuto “invalicabile”.

Strategia che evidenzia come le brigate Ezzedine al Qassam, il braccio armato di Hamas guidato da Mohammed Deif, siano riuscite a sottrarsi al controllo dell’apparato di sicurezza israeliano: che lo Shin Bet, che dispone di migliaia di informatori e agenti sotto copertura a Gaza, l’Aman, l’intelligence militare, il Mossad, lo spionaggio esterno, non abbiano avuto sentore di un’operazione che per essere preparata necessita di tempo, addestramento, collaborazioni esterne, è clamoroso.

Al di là dello stordente stupore per la sorpresa e le numerose vittime, il diffondersi, in queste modalità, della sensazione di insicurezza dentro i propri confini, il tornare a avere paura della paura, è percezione gravida di conseguenze per la psicologia collettiva israeliana.

Così come la presa, e ora la sorte, di un numero elevato di ostaggi, civili e militari, destinati, nelle intenzioni di Hamas, a essere oggetto di scambio con quelli che l’organizzazione islamista definisce “prigionieri di guerra”.

Prospettiva che - si pensi alla lunga vicenda del soldato Shalit, liberato dopo cinque anni contro il rilascio di un migliaio di palestinesi detenuti- si annuncia di complicata gestione. Non solo politica ma anche militare: operare nella Striscia, dove Hamas ha condotto quanti ha catturato nel sud di Israele, nascondendoli, probabilmente, nel reticolo di tunnel della città sotterranea o in “case sicure” a esso collegate, sarà enormemente rischioso per la loro incolumità.

In uno scenario come quello mediorientale, dove la percezione spesso è più rilevante della realtà, il successo, politico prima ancora che militare dell’attacco, conta. Il messaggio, non certo subliminale, che Hamas ha inviato ai palestinesi e non solo, è “se non ci si abbandona alla rassegnazione tutto è possibile”: anche infliggere un durissimo colpo a Israele.

La crisi dell’Anp

Il secondo obiettivo, strettamente legato, è mettere definitivamente in crisi la leadership dell’Anp, ormai condannata a un delegittimante immobilismo da scelte interne e esterne.

Presa nella tenaglia tra l’esigenza di non dare fiato ad Hamas, che l’ha espulsa dalla Striscia, e tentare di dare forma al micro stato palestinese previsto dagli accordi di Oslo, l’Anp è allo stremo.

Anche nella tradizionale roccaforte cisgiordana, dove è cresciuta una leva di giovani impazienti, decisi a andare allo scontro con Israele, che dissente non solo dal notabilato ancora fedele a Abu Mazen ma anche dalla Fratellanza palestinese, considerata “iperpoliticista” e troppo legata a strategie di lungo periodo. Attaccare Israele consente, allora, ad Hamas che a sua volta punta a radicarsi anche fuori dalla claustrofobica “riserva” di Gaza, di mostrare agli impazienti - pure parzialmente riassorbiti dall’Anp a Nablus su pressioni della famiglie legate storicamente all’ Olp-, che quella islamista è l’unica organizzazione decisa a combattere davvero Israele.

Tentativo in corso in particolare a Jenin, città-polveriera a rischio deflagrazione, teatro di frequenti scontri con l’esercito israeliano impegnato nella caccia ai militanti della Jihad islamica e di Hamas.

L’obiettivo saudita

Terzo obiettivo, non certo in ordine di grandezza, è far naufragare l’intesa tra Israele e Arabia Saudita, vero sigillo degli Accordi di Abramo, annunciata come imminente da Netanyahu. La guerra tra Hamas e Israele, allontana, se non affonda, quel passo. Anche perché getta sul tavolo il fantasma dell’Iran, politicamente sostenitore del colpo di mano e, quanto meno, a fianco di Hamas nell’intelligence e nelle forniture militari.

Difficile che, nel corso di un’“operazione militare”, volutamente titolata a Al Aqsa, terzo luogo santo dell’islam, il pur pragmatico Bin Salman, possa siglare un simile accordo per realizzare le ambizioni collegate al progetto Vision 2030.

L’Arabia Saudita ha bisogno di un medio oriente normalizzato per marciare in quella direzione, e certo, contrariamente al Qatar, non ha buoni rapporti con Hamas; ma un conflitto che vede coinvolti Israele e arabi sunniti, dei quali si è eretta a protettrice pur in concorrenza con la Turchia, non le consente scelte troppo audaci. Come potrebbe firmare un intesa con un governo, come quello guidato da Netanyahu, che al suo interno ha forze che non solo rivendicano l’annessione dei Territori in cui sorgono le colonie ma non fanno mistero dei loro propositi messianici?

Si è pur sempre eretta a custode dei luoghi santi. Il rischio per MBS è che la guerra dia fiato ai settori della famiglia reale scontenti, e soprattutto ai giuristi e teologi ostili al post-wahhabismo del potente principe ereditario.

Consapevole che la sfida lanciata indurrà Israele a una reazione mai vista – la risposta meccanica e canonica, attentato/lancio di razzi – bombardamento di rappresaglia per poi tornare a un vigilato stato di quiete, è in questo caso un mero ricordo- Hamas ha deciso di sacrificare molta della propria forza militare, destinata, come ha promesso Netanyahu a essere “distrutta” nella guerra, a questi obiettivi.

Il problema di Bibi

È, infatti, probabile che Bibi, ormai ex Mister Sicurezza- definizione evaporata di fronte all’enormità dell’accaduto e alla nuova hamekdahl, guerra dell’incompetenza, esibita il 7 ottobre - , cerchi di oscurare l’umiliazione del “giorno nero” con una guerra anch’essa senza precedenti, cercando una vittoria totale capace non solo di ristabilire la deterrenza ma anche di scongiurare il proprio declino politico.

Il premier, però, ha dei vincoli: se per coprire il disastro, formerà un governo di unità nazionale dovrà tenere conto dei nuovi membri della maggioranza.

Lapid, guida di Yesh Atid, a differenza dell'ex capo di stato maggiore Gantz a capo di Banco e Blu, poi, ha posto una condizione: che non ne facciano parte i leader dell'estrema destra nazionalista, Smotrich e Ben-Gvir, fautori dell’annessione di “Giudea e Samaria”, nome ebraico dei territori palestinesi e punto di riferimento dei coloni messianici, ritenuti tra i maggiori responsabili, nell’esercizio delle loro funzioni, della situazione attuale.

In ogni caso la barra dell’esecutivo non sarà più all’estrema destra. Persino la tentatrice mossa del cavallo di un regolamento dei conti con l’Iran, che gli Usa non sembrano voler avallare, resterebbe tale.

Un mix di vincoli interni e esterni condizionano le scelte di Israele.

© Riproduzione riservata