I modi e i tempi della composizione del governo talebano offrono molte indicazioni sugli equilibri interni dell’emirato. Innanzitutto il ruolo dell’emiro Hibatullah Akhundzada, denominato amir al muminim, cioè comandante dei credenti (da notare: è lo stesso titolo dato al re del Marocco). Nella prima fase talebana (1996-2001) presiedeva la corte della sharia afghana.

Ora Akhundzada è stato confermato dalla shura (l’assemblea, il dispositivo di decisione collettiva dei Talebani) quale leader supremo dell’emirato. Non si deve fare l’errore di equiparare tale figura alla guida suprema dell’Iran, depositaria di fortissimi poteri. L’islam sunnita dei Talebani obbliga a una gestione del potere mediante il consenso collettivo (la shura appunto) com’era anche nella prima fase con il mullah Omar che, pur avendo una grande influenza, doveva sottoporre ogni decisione all’organo collettivo.

Non deve sorprendere dunque che quando si tratta di risoluzioni importanti le discussioni siano lunghe e complesse, con frequenti ritardi a causa del necessario raggiungimento dell’unanimità. Mentre nello sciismo iraniano è possibile una visione gerarchica e verticale degli affari pubblici, i Talebani sono sunniti cioè seguaci della tradizione assembleare e consensuale.

Per due decenni la shura di Quetta – città pakistana, capoluogo del Balochistan – ha rappresentato l’unico comando generale dei Talebani in cui si ritrovavano regolarmente i leader delle varie fazioni per decidere il da farsi. I passaggi cruciali della trattativa con gli americani sono passati sempre da Quetta. Ora la shura si sposterà in Afghanistan (probabilmente a Kandahar) per continuare a svolgere il suo ruolo centrale e farà da contrappeso al governo. È da vedere se Akhundzada sarà capace di influire al suo interno con la propria personale autorità, come riusciva a fare il mullah Omar, o dovrà talvolta piegarsi ai voleri della maggioranza.

Falchi e colombe

Di tale complesso sistema decisionale abbiamo avuto un assaggio nel periodo di costituzione dell’attuale governo provvisorio. Il dibattito interno è stato più lungo del previsto e ci offre varie indicazioni sulla composizione dell’universo talebano. Innanzi tutto emergono visibilmente le tre fazioni di cui spesso si è speculato tra esperti: quella del primo ministro Mohammad Hassan Akhundi (che già aveva occupato tale ruolo durante il 1996-2002) rappresentante dei falchi della “linea di Kandahar”, cioè i pashtun tradizionalisti che non vogliono offrire nessuna apertura e che hanno costretto a un governo senza donne.

Poi c’è la fazione di Abdul Ghani Baradar, vice premier e figura illustre degli aperturisti, coloro che hanno condotto i negoziati con gli americani a Doha e avrebbero voluto un governo più inclusivo. Sono loro che si sono mostrati alla tv con gli ex avversari e che hanno fatto capire di preferire un governo misto.

In un primo momento sembrava che le colombe avessero preso il sopravvento e ci si aspettava un Baradar scelto come premier. Tuttavia la (debole) resistenza del Panjshir degli ultimi fedeli di Massud e dei tagiki a lui fedeli, ha costretto il movimento a una ultima battaglia e rafforzato l’ala oltranzista che ha ottenuto il sostegno della terza fazione, quella ben conosciuta degli Haqqani.

Costoro sono un clan etnico-politico (si passano il potere tra parenti) composto essenzialmente da combattenti e affaristi, fedeli all’integralismo talebano ma anche in contatto con le varie sigle di jihadismo globale. Senza le capacità militari (e terroristiche) degli Haqqani, i Talebani non avrebbero mai potuto resistere in questi anni di guerra.

Oggi il leader della fazione, Sirajuddin Haqqani (quello con una taglia sulla testa), è ministro dell’Interno: una posizione chiave per il futuro. È stato l’appoggio degli Haqqani a favorire i falchi, ribaltando gli iniziali equilibri che davano vincenti le colombe di Baradar. Tuttavia gli Haqqani possono riservare delle sorprese: come business men sono fortemente legati al comparto economico afghano (sia legale sia criminale) per i loro commerci, favorevoli cioè alla ripresa delle relazioni commerciali con il mondo esterno.

Passare dal Pakistan

Esistono poi figure indipendenti che possono dire la loro nella lotta di influenza tra le fazioni. In primo luogo un avversario apparente: l’inviato speciale e negoziatore americano Zalmay Khalilzad. Di ascendenza pashtun, ha trattato con Baradar e gli altri a Doha in maniera diretta e personale, rispondendo soltanto alla Casa Bianca. Ancora oggi Khalilzad mostra di mantenere la sua influenza.

Dell’accordo Usa-Talebani esistono incerte versioni ma la verità è che Khalilzad e Baradar hanno sottoscritto nel corso del tempo vari fogli aggiuntivi (addendum anche scritti a mano in pashto) di cui non si conosce il contenuto e che rappresentano il vero nocciolo del patto.

In questi giorni si è saputo che i Talebani stanno ancora scortando per il paese agenti Usa, a dimostrazione che tra le due parti c’è più assonanza di quanto non si pensi. Prova ne sia che – salvo i 13 uccisi dall’Isis-K all’aeroporto – dal 29 febbraio 2020 (quando c’è stata la firma tra le due parti) i Talebani non hanno più ucciso alcun militare americano. Pare che sia stato proprio Khalilzad ad avvertire qualche settimana fa Baradar che i giochi si stavano complicando tra Quetta, Kandahar e Kabul, spingendolo a rientrare in fretta da Doha.

La prevista apertura all’ex presidente Hamid Karzai e ad altri non ha avuto luogo, favorendo (per il momento) l’ala estrema. Baradar non è nuovo a tali smacchi: aveva provato a negoziare direttamente con il governo di Kabul nel 2010, forte della sua posizione influente nella shura di Quetta, ma era stato arrestato dai pakistani che non avevano apprezzato la sua mossa troppo indipendente. Per Islamabad ogni dialogo deve passare attraverso il Pakistan o almeno ottenerne il consenso informato. Solo nel 2018 Baradar era stato liberato per rilanciare il negoziato, con il favore di Washington.

Garantire gli equilibri

Un’altra figura importante nell’esecutivo è il figlio del mullah Omar, Yaqoub, che ha ricevuto il portafoglio della difesa perché rappresenta i combattenti (salvo quelli del clan Haqqani): per ora la composizione del governo ci dice che i veterani di guerra sono generalmente favoriti. Un’altra figura della vecchia guardia del 1996-2001 è il ministro degli esteri Amir Khan Muttaqi, che in passato era stato ministro dell’Informazione, della cultura e dell’educazione.

Membro della commissione politica che ha negoziato a Doha, si tratta di un mediatore abbastanza autonomo e moderato, con contatti con numerosi afghani in esilio. Infine il governo provvisorio ci dice qualcosa sulla composizione etnica: sono quasi tutti pashtun con l’eccezione del vicepremier Abdul Salam Hanafi, uzbeko già conosciuto come talebano di lungo corso.

Ci sono pochissime altre eccezioni. Il tema è talmente delicato da far dichiarare al portavoce del governo: «Il governo non è completo, dovremo aprirci alle altre etnie». La verità è che i Talebani hanno pochissime influenze tra i tagiki o gli uzbeki e ancor meno tra gli hazara, tanto da render loro difficile individuare figure compatibili, soprattutto se a imporsi è l’ala dura.

Infine quando si parla di Talebani occorre guardare verso il Pakistan, il vero garante degli equilibri interni a Kabul. Lungo tutta la storia degli ultimi vent’anni i pakistani (servizi, esercito o governo) sono stati l’ago della bilancia per ciò che concerne il movimento talebano, sostenendolo ma anche frenandolo ove necessario.

Per Islamabad la sopravvivenza del proprio paese nei confronti di potenti quanto pericolosi vicini come l’India e la Cina, è legata al controllo della frontiera con Kabul e a ciò che avviene oltre confine. In tale contesto vengono percepiti come molto più affidabili i Talebani che i riottosi, individualisti e imprevedibili signori della guerra finanziati dall’occidente.

Per questo i pakistani non hanno mai condiviso la strategia scelta dalla Nato e lo hanno sempre fatto sapere. Molto di ciò che accadrà nell’area è adesso in mano loro: sarà responsabilità di Islamabad moderare i falchi Talebani e fare in modo che l’Afghanistan non divenga un hub terroristico ma faccia le dovute riforme per essere nuovamente accettato nella comunità internazionale.

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