Durante i primi tre anni dell’amministrazione di Joe Biden, non è mai stato chiaro il ruolo della sua vicepresidente Kamala Harris, vista più come un ostacolo che un aiuto. Il conflitto tra Israele e Hamas, però, potrebbe cambiare questa percezione.

La Costituzione americana non conferisce particolari ruoli al numero due dell’esecutivo statunitense, se non la presidenza del Senato, compito che ormai viene svolto solo saltuariamente, in occasione del conteggio dei voti elettorali e quando un voto finisce in parità. Harris, dati i numeri striminziti dei dem, è intervenuta per sbloccare l’impasse per ben 31 volte, un record.

Agli occhi degli elettori, però, la sua immagine appare sicuramente appannata. E pensare che, dopo l’inizio della stagione di Donald Trump, Harris sembrava la novità della politica americana, l’astro nascente dei progressisti. Ma una campagna presidenziale confusa e rancorosa a fine 2019, dove si era lanciata in attacchi personali a Biden giustificati più tardi come «strategia politica», rischiavano di fermare bruscamente la sua ascesa.

Ma alla fine Biden l’ha scelta come sua vicepresidente, probabilmente per ragioni legate alla sua famiglia (ha un padre giamaicano e una madre di origine indiana). Una seconda occasione che finora non è stata adeguatamente sfruttata, anche perché le sono stati conferiti dei compiti impossibili, come la soluzione della crisi migratoria al confine tra Texas e Messico.

Lo scorso febbraio il suo articolato intervento alla conferenza sulla sicurezza internazionale a Monaco di Baviera è stato oscurato dalla visita a sorpresa del presidente a Kiev. Oggi soltanto il 32 per cento ha un’opinione positiva di lei. E bisogna risalire a una rilevazione Gallup del luglio 2007 per trovare un vicepresidente così impopolare: Dick Cheney, vice di Bush, all’epoca visto come l’eminenza grigia di un’amministrazione invischiata nell’impopolare guerra in Iraq.

Fuoco amico

Non sarebbe soltanto colpa sua. Secondo un lungo articolo pubblicato martedì sul settimanale del New York Times, Harris sarebbe stata boicottata anche da alcuni esponenti vicini a Biden per evitare che il suo carisma oscurasse un presidente che invece appare senile e appannato in più di un’occasione. Peraltro, anche la gestione della questione del confine non è totalmente sua responsabilità, dato che il Texas resta uno degli stati più conservatori dove gli eletti repubblicani a livello statale spesso si vantano, di fronte agli elettori, dei loro scontri con la Casa Bianca.

Adesso però qualcosa è cambiato. La vicepresidente ha un asset forte da giocarsi grazie allo scoppio della guerra tra Israele e Hamas. Mentre i democratici al Congresso devono gestire il problema rappresentato dalla Squad guidata dalla deputata newyorchese Alexandria Ocasio-Cortez, che in passato ha espresso vicinanza al movimento per il boicottaggio dello stato ebraico, Harris ha sempre avuto un profilo marcatamente sionista. 

Nei suoi primi giorni al Senato, nel 2017, era stata accolta calorosamente alla riunione annuale dell’American Israel Public Affairs Committee (Aipac), la principale lobby filoisraeliana di Washington. E pur dicendosi favorevole a una soluzione con due stati, Harris sostiene che la difesa di Israele debba essere «bipartisan» e che le Nazioni unite abbiano un pregiudizio antisionista.

Nel 2017 ha presentato anche una risoluzione per obiettare alla decisione dell’Onu di definire illegali gli insediamenti ebraici nei territori della Cisgiordania. Una posizione di rara chiarezza in un partito, quello democratico, che guarda sempre con maggiore simpatia alla causa palestinese.

Verso il 2024

La questione dell’età e dell’acume mentale del presidente Biden si fa sempre più pressante ed è soltanto l’impopolarità di Harris che finora ha frenato i dem dal fare il passo successivo. E  ormai i repubblicani, come la candidata alle presidenziali Nikki Haley, definiscono il possibile secondo mandato di Biden come «il primo di Kamala».

Anche i media progressisti sono stati spesso critici verso la percepita indecisione della vicepresidente su alcune questioni. Indecisione che non c’è sulla difesa di Israele. Nelle elezioni del 2024 questa nettezza potrebbe aiutare a non farsi soffiare da un partito repubblicano compattamente filosionista (con alcune eccezioni minime come il senatore del Kentucky Rand Paul) l’elettorato di origine ebraica che, ancora nel 2020, aveva scelto per il 77 per cento il ticket guidato dall’attuale presidente.

Un rischio che non si può correre e per questo, oltre al già citato articolo sul New York Times, anche il magazine The Atlantic e altri media come il portale Axios hanno dedicato maggiore spazio alla vicepresidente, vista come un’alternativa più fresca al presidente e che forse potrebbe mobilitare le minoranze il prossimo anno. Difficile dire se tre anni di titoli negativi, sovente ignorati, possano essere superati in virtù di un conflitto che non coinvolge gli Stati Uniti e che si svolge a migliaia di chilometri di distanza.

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