Per riprendere una celebre frase di Mark Twain: «La Storia non si ripete, anche se, qualche volta, fa rima con sé stessa». E la storia della Russia postcomunista è costellata di déjà vu che riportano immediatamente alla mente drammatici eventi di un passato che sembrava aver esaurito il proprio corso.

L’attentato al Crocus City Hall di Mosca, rivendicato già nelle immediate ore successive dall’Isis e ulteriormente confermate da un video tramite Al Amaq, con alcune immagini del commando riprese poco prima dell’attacco terrorista, ha riportato le lancette dell’orologio indietro di 22 anni all’assedio al teatro Dubrovka di Mosca.

Negli ultimi dieci anni si stimano in Russia almeno otto attacchi dell’Isis che indicano una radicalizzazione del fenomeno in alcune aree del paese: Daghestan, Cecenia, Inguscezia e nel Kabardino-Balkaria dove sono operative due organizzazioni jihadiste. La prima è legata ad al Qaida, come l’Emirato del Caucaso (Imarat Kavkaz – IK) e il Battaglione Imam Shamil, mentre la seconda è riconducibile allo Stato islamico con la Wilayah al Qawqaz (Iswq).

Con il passare degli anni, entrambe hanno reclutato numerosi combattenti (giovani musulmani, lavoratori migranti provenienti dalle repubbliche centrasiatiche e ceceni), sfruttando le loro rivendicazioni separatiste e il risentimento nei confronti degli abusi della polizia russa.

Il rifugio dei jihadisti

In particolare, il Caucaso è diventato un rifugio sicuro per la maggior parte dei jihadisti di tutto il mondo e, dal 2007 il leader ribelle ceceno legato ad al Qaida, Doku Umarov, è diventato l’emiro fondatore dell’Emirato del Caucaso (IK), con l’obiettivo di espellere le forze russe e formare un califfato nella regione. A tal fine, Umarov ha pianificato diversi attacchi terroristici, tra cui l’attentato del 2009 a un treno pendolare tra Mosca e San Pietroburgo, quello nella metropolitana di Mosca nel 2010 e all’aeroporto di Domodedevo del 2011.

Con la morte di Umarov nel 2013 lo Stato islamico è stato artefice dell’attacco alla metropolitana di San Pietroburgo nel 2017 per conto di al Qaida nel Caucaso dove nel 2019 i militanti dell’Islamic State Wilayat Qawqaz (Iswq) si sono definiti «mujaheddin dello Stato islamico in Russia», rinnovavano il loro giuramento di fedeltà ad Abu Bakr al Baghdadi, il terrorista iracheno e califfo dell’Isis.

Queste poche, ma indicative informazioni rendono l’idea della concreta preoccupazione della Russia di Vladimir Putin dell’ascesa jihadista negli ultimi decenni che conterebbe, secondo le stime del Servizio federale per la sicurezza della Federazione Russa (Fsb), di circa 70 cellule terroristiche di cui 38 affiliate allo Stato islamico.

Per questo motivo il Cremlino ha attuato una serie di provvedimenti legislativi, come la “legge Yarovaya” del 2016 che contiene severe misure di controllo per gli operatori di telecomunicazioni (Tlc) e notevoli limitazioni alla libertà religiosa e l’ampliamento dei poteri delle forze dell’ordine in capo all’Fsb e alla Guardia Nazionale della Federazione Russa (Rosgvardija).

Il terrorismo islamico è, quindi, un problema rilevante per la Russia che spiega, in parte, anche il suo intervento in Siria e i tentativi di sradicare le diaspore cecena e daghestana che compongono le file dello Stato islamico. Anche diversi politici e intellettuali russi hanno sempre dichiarato che il Caucaso e la Russia dovrebbero essere separati, perché sono troppo diversi dal punto di vista religioso e culturale e costituiscono il vulnus del separatismo all’interno dell’arcipelago multi-etnico e multi-religioso della Russia.

Putin e la sicurezza

Per il terrorismo islamico, la Russia di Putin ha sempre rappresentato un nemico da sconfiggere e, come tale, evidentemente ha scelto il momento ritenuto più idoneo per provarci: la guerra in Ucraina nella quale il Cremlino sta impegnando tutte le risorse umane, militari ed economiche.

Ma, soprattutto, nella fase in cui il presidente Putin, dopo l’acclamazione plebiscitaria delle elezioni presidenziali, ha voluto dimostrare di essere ancora saldamente al potere, sostenuto dall’elettorato in tutte le sue decisioni politiche.

È da ricordare che la sua campagna elettorale si è concentrata sul tema della sicurezza geopolitica della Russia e della protezione del popolo russo. Pochi giorni fa, il presidente Putin aveva, infatti, affermato che «ci sono le condizioni per avanzare ulteriormente, affinché la Russia sia più salda, più forte, più efficace».

Le immagini della “potenza” della Russia e della “forza politica” di Putin sono state, al momento, offuscate nell’opinione pubblica russa per lasciare spazio alla visione dell’attacco terroristico che era stata previsto dall’amministrazione americana qualche settimana fa. Putin non ha creduto agli Stati Uniti ritenendo che si trattasse di una mera notizia, volta a «destabilizzare la società».

L’ostentazione putiniana del rafforzamento della verticale del potere, nonostante le scosse determinate dalle morti di Evgenij Prigožin e di Aleksej Navalny dei mesi scorsi, è messa nuovamente alla prova da un attacco al suo interno che diffonde paura e insicurezza, elementi che possono indubbiamente indebolire la narrazione del Cremlino e la gestione del potere. Ora, il presidente Putin deve affrontare due delicate situazioni contemporaneamente sia sul fronte interno sia su quello esterno al paese.

La reazione del Cremlino

La drammatica realtà ha smentito clamorosamente le parole del presidente russo sul consolidamento della Russia e i media statali hanno rilanciato l’unica narrazione possibile e prevedibile: un collegamento tra una componente dello Stato islamico con l’intelligence ucraina. Nelle ore successive, il servizio di sicurezza federale ha, infatti, dichiarato che sono stati arrestati i sospettati dell’attacco nei pressi del confine ucraino.

Questa situazione potrebbe indurre Putin ad accelerare la decisione non tanto di una seconda mobilitazione dei soldati russi quanto di un’escalation nella guerra in Ucraina.

Tuttavia, pare che il presidente Putin stia ancora ponderando in quali termini avviare una dura reazione. Diversamente dal passato dove Putin non ha esitato a minacciare i ceceni con la famosa frase – «Noi perseguiteremo dappertutto terroristi, e quando li troveremo, mi perdoni l’espressione, li butteremo dritti nella tazza del cesso» –, il breve discorso alla nazione si è concentrato sulla volontà di trovare e punire i terroristi, invitando gli stati a combattere il terrorismo internazionale e limitandosi a sostenere che vi sarebbe stata una “porta aperta” agli attentatori, una via di fuga al confine ucraino.

Nelle parole del presidente Putin non vi è stata alcuna accusa diretta di complicità nell’atto terroristico da parte dell’Ucraina, né, tantomeno, nessun segnale di una eventuale escalation nel breve periodo.

La propaganda continuerà a insinuare corresponsabilità ucraine per alimentare ancora di più l’astio dei russi nei confronti del governo ucraino, ma è verosimile ritenere che Putin stia affrontando il più complesso stress test da quando è al potere.

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