La campagna elettorale è entrata nel vivo e Donald Trump sta dando battaglia al presidente Joe Biden su tutti i fronti, sia in patria che all’estero. In particolare, l’attività diplomatica di Trump nelle ultime settimane ha toccato dei picchi notevoli, irritando non poco la Casa Bianca. Secondo quanto riportato dal media statunitense Axios, un recente incontro tra Trump e il presidente argentino Javier Milei sembra aver infastidito molto il team di Biden.

Dietro le quinte, i funzionari dell’amministrazione americana avrebbero messo in dubbio l’appropriatezza della fitta agenda diplomatica di Trump, che negli ultimi mesi ha coinvolto tra gli altri il premier ungherese Viktor Orbán, il presidente polacco Andrzej Duda, il ministro degli Esteri britannico David Cameron e il principe saudita Mohammed bin Salman. In generale, non è una novità che i candidati alla presidenza degli Stati Uniti incontrino i leader stranieri per cercare di accreditarsi sul piano bilaterale. Nell’estate del 2008, ad esempio, l’allora candidato dem alla Casa Bianca Barack Obama si recò in Giordania, Israele e Germania per una serie di vertici. Quattro anni dopo, il suo sfidante repubblicano Mitt Romney intraprese un tour europeo tra Londra e Varsavia, prima di recarsi in Israele.

Nonostante si tratti di una routine per gli aspiranti presidenti, l’iperattività diplomatica di Trump si differenzia in modo particolare da quella dei suoi predecessori e preoccupa per varie ragioni. Innanzitutto per la selezione dei suoi ospiti, che da Milei a Orbán comprendono l’élite del sovranismo globale. Il premier ungherese, ad esempio, si è spinto oltre la consueta prassi diplomatica, prodigandosi in un endorsement alla candidatura di Trump, scelta del tutto irrituale per un leader straniero.

Anche la forma di questi vertici ha lasciato piuttosto perplessi gli addetti ai lavori, tra ospitate nel resort di Mar-a-Lago in Florida o cene private nella Trump Tower a New York. Di recente, la residenza newyorchese del tycoon ha ospitato il presidente polacco Duda, esponente di spicco dei sovranisti locali di Diritto e giustizia, che pochi anni fa aveva proposto di chiamare “Fort Trump” una base militare americana prevista in Polonia. Nel frattempo, l’entourage di Trump sta incoraggiando i paesi stranieri a inviare rappresentanti per incontrarlo. Richard Grenell, ex ambasciatore americano in Germania, ha viaggiato molto per incontrare i leader dell’estrema destra globale ed è considerato da molti come uno dei candidati alla carica di segretario di Stato in caso di vittoria repubblicana a novembre.

Accordo con Riad

Questa serie di interazioni private si è estesa anche al Golfo Persico, grazie alle telefonate con Mohammed bin Salman e il re Hamad bin Isa Al Khalifa del Bahrain. Secondo alcuni funzionari statunitensi sentiti dal New York Times, la conversazione di Trump con il principe saudita è stata abbastanza preoccupante.

Biden sta negoziando un delicato accordo di sicurezza con l’Arabia Saudita che potrebbe far parte di un patto più ampio, in cui Riad arriverebbe a stabilire per la prima volta relazioni formali con Israele. Un’intesa di questo tipo potrebbe essere un totale reset diplomatico per il Medio Oriente e una stella sul petto dell’amministrazione Biden, considerando anche lo stato di tensione che si respira nella regione. Alcuni funzionari temono che Trump, la cui società immobiliare ha un accordo con un’azienda saudita per un progetto in Oman, possa cercare di convincere il principe bin Salman ad aspettare le elezioni di novembre, dando così al tycoon l’opportunità di presiedere l’accordo come presidente.

Se fosse vera, anche questa strategia avrebbe un precedente illustre: secondo un report del 2023, il partito repubblicano avrebbe cercato di condizionare la rielezione del democratico Jimmy Carter, sabotando gli sforzi dell’amministrazione per il rilascio degli ostaggi in Iran. Quando Ronald Reagan si assicurò la nomination repubblicana, la campagna di Carter era in difficoltà a causa del sequestro di oltre cinquanta americani nell’ambasciata statunitense a Teheran. Agli iraniani sarebbe stato chiesto di non rilasciare gli ostaggi prima delle elezioni, promettendo in cambio un accordo migliore firmato da Reagan. Carter, che aveva ordinato un tentativo fallito di salvare gli ostaggi nell’aprile 1980, perse le elezioni tra le critiche alla sua gestione della crisi iraniana e a un’economia stagnante. Gli ostaggi furono infine liberati il 20 gennaio 1981, il giorno in cui Reagan entrò in carica.

Reagan aggiornato

Le analogie con il reaganismo sono state rintracciate anche in un nuovo libro, We Win, They Lose: Republican Foreign Policy and the New Cold War (“Noi vinciamo, loro perdono: la politica estera repubblicana e la nuova guerra fredda”), dove i politologi Matthew Kroenig e Dan Negrea sostengono che, sebbene possa sembrare che i repubblicani siano divisi sul ruolo dell’America nel mondo, in realtà sono uniti sui pilastri fondamentali di politica estera. Il libro parla di una “fusione Trump-Reagan”, che prende i principi tradizionali del reaganismo e li aggiorna per il ventunesimo secolo con alcune idee trumpiane.

Traendo spunto da Reagan, però, Trump potrebbe spingersi troppo oltre con qualsiasi tentativo di influenzare le parole o le azioni dei leader stranieri, ad esempio chiedendo espressioni di sostegno, come potrebbe essere il caso di Orban, o suggerendo provvedimenti per minare le politiche di Biden, come nel caso di bin Salman. In linea di principio gli incontri pre elettorali sono una prassi consolidata, ma il contenuto di queste chiacchierate informali potrebbe essere esplosivo per l’amministrazione Biden. Il tenore politico sovranista dei suoi special guest, inoltre, sembra suggerire in modo inquietante l’approccio che una nuova amministrazione Trump potrebbe adottare in politica estera.

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