Come rivelato dal Jerusalem Post il 14 luglio, il governo russo ha ampliato la definizione di «agenti stranieri», che ora include, «coloro che prendono parte a qualsiasi attività che le autorità stabiliscono sia contraria agli interessi nazionali della Russia o che ricevono sostegno di qualsiasi tipo, non solo monetario, dall’estero».

Su questa base, rivela sempre il giornale israeliano, l’Agenzia ebraica, già sotto osservazione delle autorità russe da tre anni, ha ricevuto una lettera  dal ministero della Giustizia con scritte una serie di violazioni in cui sarebbe incorsa. In sostanza, la colpa dell’Agenzia sarebbe aver raccolto informazioni riguardo cittadini ebrei russi, prassi che appartiene alla sua stessa azione di monitoraggio delle potenziali richieste di alyah, la domanda degli ebrei della diaspora di «risalire» (vedi trasferirsi) in Israele. La motivazione non può che evocare alla memoria ebraica i peggiori fantasmi.

I rapporti com Mosca

Il rapporto fra Russia ed ebrei è, per usare un eufemismo, la storia di una relazione complicata. Sede di grandi comunità e, con Ucraina, Bielorussia, Polonia, luogo di nascita ed espansione del movimento chassidico, è anche stata terra di persecuzioni e pogrom.

Celebri quelli del 1881-1882, seguiti all’assassinio dello zar Alessandro II, che favorirono l’emigrazione nell’allora Palestina mandataria di molti ebrei, deludendo le speranze anche di coloro che avevano aderito all’aśkhalà, l’illuminismo ebraico, e ai suoi ideali di emancipazione e integrazione.

In seguito alla caduta dello zar, il periodo d’esordio del bolscevismo, condotto sulla base dell’ideale rivoluzionario per cui «agli ebrei tutto è concesso come individui, nulla come nazione». Risoltosi anch’esso in una serie di feroci attacchi antiebraici da parte dell’Armata rossa (tra l’altro guidata dall’ebreo Trockij). La retorica antiebraica di questa fase segue il tradizionale antigiudaismo occidentale. Le parole d’ordine le scriverà nero su bianco Stalin nel suo scritto sulla questione nazionale del 1913: separatismo, particolarismo.

Insomma, il solito sguardo universalistico occidentale che vede gli ebrei come un gruppo chiuso in sé stesso, insensibile alle sorti degli altri. In termini sovietici, si traduce nell’accusa di progetto controrivoluzionario. Con la svolta staliniana degli anni ’30, il tragico decennio delle purghe, la retorica antiebraica subisce un cambio di passo. Le accuse diventano quelle tipiche dei regimi ipernazionalisti. L’ebreo è l’internazionalista, la quinta colonna di un potere cosmopolita che sradica dall’interno la grande tradizione russa (non più sovietica).

Una narrazione che si manterrà identica fino al processo dei medici interrotto dalla morte di Stalin nel 1953. In mezzo l’esperimento del Birobidzan, regione nella Russia orientale trasformata in un gigantesco ghetto a cielo aperto, per alcuni storici centro di raccolta per una futura soluzione finale. In tutto questo, si acuisce sempre più la caccia alle streghe nei confronti delle agenzie sioniste, accusate di lavorare al soldo dell’internazionale straniera.

Ritorno al passato

La svolta riportata dal Jerusalem Post fa tornare la Russia, dopo anni di ottime relazioni con Israele e di politiche di sostegno alla minoranza ebraica, ai più rigidi schemi nazionalisti. Va aggiunta una nota credo rilevante: il nazionalismo russo, facilmente oggi rinvenibile anche nel passaggio retorico dalla denazificazione dell’Ucraina alla lotta contro l’occidente decadente, si è sempre accompagnato a una sua asianizzazione.

Lo stesso potere staliniano ha sempre più assunto le sembianze di una satrapia orientale. Se proiettato ai giorni nostri non è una buona notizia vedere una Russia sempre più distante dall’occidente. Né per noi, né per la Russia e, credo, nemmeno per la Cina, che, per una Russia sempre più povera che prende, perde una parte di mondo per lei assai più proficua.

Attenzione, il riutilizzo di un nazionalismo che include tendenze antiebraiche non assolve certo, se non nelle schematizzazioni della nostra informazione, le componenti ultranazionaliste e nazistoidi ucraine. È assai noto che l’antisemitismo è pratica assai diffusa da entrambe le parti. Non siamo certo fra coloro che immaginano il battaglione Azov come consesso di discussione sui testi kantiani, come evocato dall’ormai celebre dichiarazione del comandante Kuharchuck. La lettera inviata all’Agenzia ebraica riflette, però, tendenze di fondo che è impossibile rimuovere. Forse, più che chiederci chi ha iniziato la guerra, come fosse una lite fra bambini, bisognerebbe valutare le conseguenze di ciò che sta accadendo. Una volta di più si rileva quanto l’antisemitismo sia un indicatore di una condizione generale che supera di molto i destini ebraici.

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