Nel suo discorso tivù di fine anno Xi Jinping ha ribadito la linea: «La riunificazione della madrepatria è una certezza storica», ha affermato il presidente cinese. Per raggiungere questo traguardo, dopo il passaggio alla Repubblica popolare cinese di Hong Kong dal Regno Unito (nel 1997) e di Macao dal Portogallo (nel 1999), manca soltanto Taiwan. Dove però gli elettori sono pronti, con le presidenziali e politiche del 13 gennaio, a bocciare la prospettiva della “riunificazione” promossa da Pechino mandando al governo per la terza volta consecutiva gli “indipendentisti” del Partito progressista democratico (Dpp).

Soltanto il 7,4 per cento dei taiwanesi è favorevole ad associarsi alla Rpc. Nel 1994 erano il triplo, da allora sono diminuiti costantemente. Settantaquattro anni dopo la fuga sull’isola dei nazionalisti del Kuomintang sconfitti nella guerra civile, oggi i suoi giovani si identificano soprattutto come “taiwanesi”. Ad assecondarne il distacco dalla Cina continentale sono stati tre fattori. La demografia, con l’emergere di nuove generazioni di discendenti degli esuli del 1949, con legami familiari, economici e culturali con l’altra sponda dello Stretto più blandi rispetto a nonni e genitori. La politica, con lo sviluppo - dopo 38 anni di legge marziale (1949-1987) - di un sistema democratico multipartitico a Taiwan. La psicologia, con il crescente timore per l’ascesa economica, diplomatica e militare del dirimpettaio autoritario.

Le statistiche della National Chengchi University rivelano altresì che oltre il 60 per cento dei taiwanesi preferirebbe andare avanti senza risolvere l’evidente contraddizione per cui Taiwan esercita di fatto piena sovranità sul suo territorio, ma non è riconosciuta come paese indipendente, se non da 12 staterelli e dal Vaticano. Infatti il 32,1 per cento della popolazione è propenso a “mantenere lo status quo a tempo indeterminato” e il 28,6 per cento a “mantenere lo status quo, per decidere in un secondo momento”. Il 21,4 per cento invece vorrebbe “mantenere lo status quo muovendosi verso l’indipendenza”. Infine, il 4,5 per cento aspira a un’immediata dichiarazione d’indipendenza.

I candidati e la Cina

Numeri che evidenziano che, per la gran parte dei taiwanesi, non vale la pena di rischiare uno scontro con la Cina per inseguire l’indipendenza de jure. Anche il Dpp, secondo il quale «Taiwan è uno stato indipendente e sovrano», ne ha preso atto, tanto da aver deciso già nel 2011 che - contrariamente a quanto stabilito dal suo statuto - una formale dichiarazione d’indipendenza non è necessaria. L’ultimo sondaggio di My Formosa prima del silenzio elettorale scattato il 3 gennaio dà il candidato del Dpp, il vice di Tsai Ing-wen designato per succederle alla presidenza, in netto vantaggio: William Lai Ching-te raccoglierebbe il 39,6 per cento delle preferenze, Hou Yu-ih (Kuomintang) il 28,5 per cento e Ko Wen-jie (Partito popolare) il 18,9 per cento. Quest’ultimo accusa Lai e Hou di essere rispettivamente anti e pro-Cina e si propone come il migliore garante dello status quo.

I blu del Kmt e i verdi del Dpp sono agli antipodi sul “Consenso del 1992”, raggiunto tra rappresentanti del Kmt e del Partito comunista, in base al quale «esiste una sola Cina, con differenti interpretazioni». Un’intesa che riconosce lo stallo tra due parti - la Rpc e la Repubblica di Cina (nome ufficiale di Taiwan) - che si proclamano entrambe legittime rappresentanti della Cina e che fornito la base per affrontarlo, incoraggiando nonostante tutto lo sviluppo delle relazioni tra Pechino e Taipei. Un compromesso mai accettato dal Dpp, partito di taiwanesi non discendenti da quegli immigrati che, a metà del secolo scorso, si sono portati con sé il bagaglio culturale e politico del Kuomintang, fondato a Shanghai nel 1919 e al governo in Cina dal 1928 al 1949. Proprio per il rifiuto di Tsai di accettare il “Consenso del 1992”, otto anni fa Pechino ha sospeso il “meccanismo di comunicazione tra lo Stretto”, ovvero i contatti non ufficiali tra i due governi. Le tensioni che ne sono derivate si protrarranno in caso di vittoria di Lai e della sua vice in pectore, Hsiao Bi-khim, che Pechino considera “indipendentisti irriducibili”.

Orizzonte 2049

A fronte dei profondi cambiamenti degli ultimi anni nella società e nella politica taiwanese, la posizione di Pechino è rimasta sostanzialmente immutata: Taiwan fa parte della Cina, alla quale va ricongiunta pacificamente (senza tuttavia rinunciare all’uso della forza) e va amministrata secondo il principio “un paese due paesi” che ha preservato le autonomie di Hong Kong fino alla repressione del movimento pro-democrazia del 2019. In occasione del XIX congresso del partito comunista (ottobre 2017) Xi ha inserito la “riunificazione” tra i punti qualificanti il “grandioso risveglio della nazione cinese”, lasciando intendere che, così come il suo progetto nazionalista, dovrebbe realizzarsi entro il 2049, centenario della nascita della Rpc. Nel Libro bianco sulla questione taiwanese pubblicato nel 2022 il governo di Pechino ha avvertito che «fare affidamento su forze esterne non porterà a nulla i separatisti di Taiwan, e il tentativo di usare Taiwan per contenere la Cina è destinato a fallire».

Pechino osserva con preoccupazione le mosse di Washington, che le hanno fatto temere un che l’avversario stia cambiando politica su Taiwan. Il 2 dicembre 2016, Tsai si congratulò al telefono con l’appena eletto Donald Trump, primo contatto ufficiale tra un presidente degli Stati Uniti e un suo omologo taiwanese da quando, nel 1979, Washington ha ritirato il riconoscimento alla Repubblica di Cina per accordarlo alla Rpc, impegnandosi a seguire la politica secondo cui c’è “una sola Cina”. Per incentivare le relazioni tra Washington e Taipei Trump ha varato una legge ad hoc, il “Taiwan Travel Act” del 2018. Soprattutto, con Trump le forniture di armamenti Usa a Taiwan hanno raggiunto vette inesplorate: 10,7 miliardi di dollari nel 2019 e 5,8 miliardi l’anno successivo.

Il sostegno militare a Taipei si è ridotto con l’amministrazione Biden (2,1 miliardi nel 2022, 1,8 miliardi l’anno scorso) durante la quale però si è registrata la clamorosa visita della speaker della Camera, Nancy Pelosi, accolta a Taiwan da Tsai.

Il bastone e la carota

Nel volgere di poco più di un lustro, la questione taiwanese - ultima e assai nociva scoria della Guerra fredda, assieme alla divisione della Corea - è finita al centro di quella che a Washington hanno battezzato “rinnovata competizione tra grandi potenze”.

Pechino ha reagito col bastone e la carota. I war game intorno allo Stretto si sono fatti più minacciosi e frequenti. In risposta allo schiaffo di Pelosi, con una esercitazione senza precedenti l’Esercito popolare di liberazione ha dimostrato di essere in grado di attuare un blocco navale e, da allora, i sorvoli dei caccia e i pattugliamenti della marina intorno all’isola non si sono mai fermati. Pechino sfoggia i muscoli sia per intimidire gli “indipendentisti”, sia per avvertire Washington che un intervento in un eventuale conflitto su Taiwan costerebbe agli Usa un pesante tributo di vite. D’altro canto il Dpp respinge gli inviti di Pechino a proseguire sulla strada dell’integrazione delle rispettive economie perseguendo una strategia di “de-risking”, di riduzione della dipendenza di Taiwan dai mercati cinesi.

Ciononostante, un attacco contro Taiwan in caso di vittoria di Lai è improbabile. Pechino infatti si muove su Taiwan considerando il contesto delle relazioni della Cina, la più importante delle quali è con gli Stati Uniti. E a San Francisco il 15 novembre scorso Xi ha assicurato a Biden che la Cina non si sta preparando a invadere Taiwan, incassando un miglioramento dei rapporti con gli Usa. Inoltre l’ascesa del Partito popolare e il calo dei consensi per il Dpp potrebbe consegnare a Lai un parlamento meno gestibile di quello uscente, nel quale, su 113 seggi, il Dpp ne ha 63 e il Kmt 38. In una fase in cui ha dato priorità assoluta alla ripresa economica la leadership cinese non ha fretta: per “riunificare” Taiwan l’orizzonte è il 2049.

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