Dopo l'Arabia Saudita, anche gli Stati Uniti hanno invitato i loro cittadini a lasciare il Libano “fino a quando saranno ancora disponibili voli commerciali”. Come ad ipotizzare che a breve potrebbero non essercene più. E' l'incubo del secondo fronte, dopo quello di Gaza, che toglie il sonno alle diplomazie. Sarebbe il dilagare del conflitto.

L'Arabia Saudita si è rassegnata a questa misura drastica non appena concluso un colloquio con il ministro degli Esteri iraniano e la tempistica è inquietante. Segno che gli ayatollah non escludono di attivare gli alleati Hezbollah attestati nel sud del Libano al confine con Israele in situazione di calma precaria e garantita dai caschi blu dell'Onu (compresi 1100 italiani) dal 2006, dopo l'ultima guerra. Ieri nell'area le solite scaramucce con scambio di colpi di artiglieria quasi fosse un allenamento iniziato a ridosso del fatale 7 ottobre.

Chi ha interesse a gettare benzina sul fuoco? Non certo Israele già impegnato altrove e timoroso di doversi difendere da un secondo attacco. Tanto più che Hezbollah ha impiegato la lunga tregua per riarmarsi copiosamente. Dispone sulla carta, secondo l'intelligence di Tel Aviv, di oltre centomila missili, è il grado di colpire l'intero territorio dello Stato ebraico, ha un esercito forte di centomila unità e molti suoi soldati sono stati forgiati nella guerra di Siria quando sono accorsi in difesa del traballante regime di Bashar Assad contribuendo in modo decisivo alla sua ripresa delle redini del comando.

In teoria non sarebbe il momento propizio per una chiamata alle armi nemmeno per Hezbollah, il partito di Dio dello sceicco Hassan Nasrallah che fa parte della coalizione di governo di un Paese tecnicamente in default e pervaso da manifestazioni di cittadini esasperati dalle precarie condizioni economiche. Ma Hezbollah deve rispondere al volere dei padrini politici di Teheran.

I quali, dopo un sostanziale attendismo, potrebbero aver sciolto gli indugi dopo l'esplosione nel parcheggio dell' ospedale di Gaza. Nonostante le prove prodotte da Israele, nel mondo musulmano la convinzione pressoché unanime è che la responsabilità del massacro sia “dell'entità sionista”, le piazze si sono infiammate con feriti, scontri, tentativi di assalti alle ambasciate, comprese quelle del “Satana americano”.

Un momento favorevole per creare il consenso attorno a un attacco, costringere Israele a rispondere, aumentare il caos e mettere nell'angolo le petromonarchie del Golfo costringendole a recedere dal proposito di un'alleanza con lo Stato ebraico avviata con gli Accordi di Abramo.

Israele ha un sentiero stretto da poter percorrere. Nelle orecchie di Benjamin Netanyahu ancora rimbombano le parole del presidente Usa Joe Biden che ha sì garantito il suo appoggio, ma lo ha accompagnato con una serie di ammonimenti sulla necessità di non cedere alla rabbia, comportarsi come una democrazia, risparmiare i civili, permettere l'invio di aiuti umanitari ai palestinesi.

Molto significativo l'invito a non ripetere gli errori compiuti dall'America dopo l'11 settembre: chiaro il riferimento all'occupazione dell'Afghanistan terminato ingloriosamente due estati fa e all'occupazione dell'Iraq, altro pantano da cui Washington è uscita ammaccata.

Dunque attenzione ad avere un piano dopo la possibile invasione di Gaza o almeno di una parte di essa. Che pare imminente. Ieri il ministro della Difesa Yoav Gallant, in visita ai soldati attestati alla frontiera della Striscia, ha detto loro: “Ora vedete Gaza da lontano, presto la vedrete da vicino”. 

© Riproduzione riservata