«L’unica soluzione possibile» al conflitto israelo-palestinese è il raggiungimento di un accordo «basato sulla soluzione dei due stati», che «richiede la cessazione delle attuali ostilità e la riduzione delle tensioni» in tutta l’area mediorientale.

«È importante che le autorità legittime dello stato di Palestina e le autorità dello stato di Israele, con il sostegno dell’intera comunità internazionale, dimostrino l’audacia di rinnovare il loro impegno per una pace basata sulla giustizia e sul rispetto reciproco». È questa la posizione del Vaticano, riaffermata lo scorso 6 novembre dall’osservatore permanente della Santa sede presso le Nazioni unite a New York, l’arcivescovo Gabriele Caccia.

In Vaticano si sta cominciando a fare i conti con le conseguenze di una guerra di cui si teme il prolungamento indefinito, cosa che avrebbe un impatto sociale oltre che umanitario drammatico sulla comunità cristiana già ridotta ai minimi termini in Terra santa.

Cresce la preoccupazione per l’assenza di un’“exit strategy” dal conflitto in corso da parte del governo israeliano guidato da Benjamin Netanyahu, mentre, sul fronte opposto, per “aggirare” il problema Hamas, si cerca di accreditare uno spazio politico per la debole Autorità nazionale palestinese guidata dall’anziano leader Abu Mazen affinché possa avere un ruolo nella gestione del “dopo”, ovvero nel governo di Gaza e nell’inevitabile opera di ricostruzione.

Le incertezze

Le incertezze e i dubbi suscitati in Vaticano dalla nuova fase della crisi mediorientale erano ben sintetizzati sull’ultimo numero della Civiltà cattolica, pubblicato all’inizio di novembre, le cui bozze vengono riviste dalla segreteria di Stato. «Israele, al quale il diritto internazionale e la maggior parte dei paesi occidentali riconoscono il diritto di difendersi in modo proporzionale e tenendo presente il diritto umanitario deve dimostrare che la sua lotta è contro i terroristi, contro Hamas, che intende distruggere lo stato israeliano, e non contro il popolo di Gaza.

Dovrebbe garantire un nuovo inizio dopo la guerra, sostenendo un serio programma di ricostruzione e promettendo di non “strangolare” l’economia della Striscia di Gaza, anzi proponendo progetti di cooperazione». «Inoltre, sul versante politico», si affermava ancora, «dovrebbe sostenere una nuova Costituzione palestinese e appoggiare i nuovi leader eletti dal popolo. Ciò, secondo alcuni interpreti, sarebbe più facile con un nuovo governo israeliano eletto dopo la fine della guerra».

Una conclusione che non era esattamente un atto di fiducia nell’attuale leadership israeliana.

Il viaggio del papa

In un’intervista rilasciata all’Osservatore romano, Yagal Carmon, esperto di intelligence ed ex consigliere per la sicurezza di due ex premier israeliani come Yitzhak Rabin e Yitzhak Shamir, e fra i pochi ad aver previsto l’attacco di Hamas e lo scoppio del conflitto, ha affermato: «Come pensano di uscire da lì? Pensano forse di tornare indietro a prima del 2005 ed amministrare Gaza? Una follia. Pensano di liberare Gaza per restituirla all’Anp? Cioè pensano seriamente che Mahmud Abbas possa rientrare a Gaza a bordo di un carrarmato israeliano?».

«Potrebbe essere una soluzione», ha aggiunto, «quella di una forza d’interposizione dei paesi arabi, che si assume anche l’onere della gestione della Striscia. Ma mi sembra che i due principali attori, Giordania ed Egitto, non abbiano alcuna intenzione di lasciarsi coinvolgere. E allora? Allora tutto rimarrà come prima. Con un Hamas più concentrato a sud della Striscia, e al nord con i soldati israeliani e far la guardia ad un mucchio di macerie».

In tutto questo, il prossimo viaggio del papa a Dubai, negli Emirati Arabi Uniti, dal primo al 3 dicembre, in occasione del vertice mondiale contro il riscaldamento climatico (Cop 28), potrebbe costituire un importante, quanto imprevisto, appuntamento diplomatico informale per discutere del conflitto Israele-Hamas.

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