Dall’entourage del sedicente “anarco-capitalista” che il 10 dicembre irromperà nella Casa Rosada è arrivata la conferma che l’Argentina rinuncerà a entrare nei Brics guidati da Cina e Russia, ai quali avrebbe dovuto aggiungersi il 1° gennaio prossimo, dopo l’allargamento a sei nuovi paesi deliberato dall’ultimo vertice del forum.

«Non capiamo che interesse abbiamo a stare nei Brics», ha dichiarato ieri ai media russi Diana Mondino. La consigliera del presidente eletto Javier Milei, in predicato di diventare la sua ministra degli Esteri, ha inoltre annunciato che saranno vagliati gli «accordi segreti» sottoscritti con Pechino dall’esecutivo uscente.

Del resto tra i cavalli di battaglia della campagna di Milei «Non farò affari con paesi comunisti» e la promessa di tagliare le relazioni con la Cina in favore di quelle «con il mondo civilizzato» sono stati tra i più gettonati. Eppure già l’altro ieri, a urne ancora calde, Pechino si è congratulata ufficialmente con il Trump di Buenos Aires.

Il fatto è che la Cina non vuole e non crede a un “decoupling” dall’Argentina, il cui voltafaccia nei confronti dei Brics è stato minimizzato dalla portavoce del ministero degli Esteri, Mao Ning, come una libera scelta verso una «piattaforma aperta a chi vuol diventare membro di quella famiglia».

L’export di materie prime

Ciò che preoccupa Pechino è soprattutto la possibilità (nel 2024 si voterà in Messico e Venezuela) di un cambiamento geopolitico in quell’America latina che negli ultimi anni si è mantenuta a sinistra e ha intrattenuto rapporti sempre migliori con la Cina.

Con Milei torna nella sua tradizionalmente sfera d’influenza statunitense un paese che con la presidenza di Alberto Fernandez ha aderito (il 5 febbraio 2022) alla Belt and Road Initiative cinese, dopo essere entrato, due anni prima, nella Asian Infrastrutture Investment Bank (Aiib). Il rafforzamento delle relazioni con Pechino ha permesso alle disastrate casse dello stato di avere accesso a fonti di finanziamento supplementari (a guida cinese): quelle della Aiib, per i progetti con il brand della nuova Via della Seta, e della New Development Bank dei Brics, mentre i debiti con il Fondo monetario internazionale raggiungevano gli attuali 43 miliardi di dollari.

Smaltita la sbornia dei festeggiamenti, Milei non potrà prescindere dal fatto che per l’Argentina la Cina è un paese fondamentale – il secondo partner commerciale dopo il Brasile – da cui nel 2022 ha importato beni per 17,5 miliardi di dollari e verso cui ha registrato un export di 7,9 miliardi di dollari, soprattutto materie prime alimentari, delle quali la Cina è il primo acquirente. Proprio per questo il mantenimento di buone relazioni con la Cina è stato la condicio sine qua non posta dall’ex presidente Mauricio Macri per garantire al ballottaggio il sostegno della sua destra moderata alla scalata al potere di Milei.

Lo scambio peso-yuan

Secondo il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas (Conicet), dal 2008 l’Argentina ha ottenuto dalla Cina prestiti per 8,1 miliardi di dollari, arrivati soprattutto attraverso la China Development Bank e la Export-Import Bank of China. Milei scommette sulla “dollarizzazione” del paese, con relativa abolizione del peso e della banca centrale.

Proprio quest’ultima, attraverso un accordo di scambio con quella cinese, da anni riesce a ottenere da Pechino gli yuan (una delle valute accettate dal Fmi) necessari a scongiurare l’ennesimo default argentino. Secondo lo stesso Fmi è stato proprio questo schema d’emergenza a tassi agevolati a garantire quel minimo di riserve in valuta pregiata necessario a tenere il paese agganciato al Fondo monetario internazionale.

La presenza dei quartier generali delle “big four” nelle vie del centro di Buenos Aires è un segno evidente della penetrazione delle quattro principali banche di stato cinesi in Argentina, nel “cortile di casa” degli Stati Uniti.

Il 30 agosto scorso, la banca centrale di Pechino ha annunciato il «primo investimento diretto in Argentina in yuan», nell’ambito della sua promozione come valuta alternativa al dollaro per il commercio internazionale. La scarsità di valuta estera pregiata e il crescente rischio d’insolvenza sul debito con i creditori internazionali hanno avvicinato l’Argentina (così come altri paesi latinoamericani) alla valuta cinese, che negli ultimi mesi ha ottenuto il via libera del governo Fernandez per essere utilizzata (in luogo del biglietto verde) nel commercio bilaterale, così come per finanziare i grandi progetti infrastrutturali in cantiere.
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