Dal 7 ottobre a oggi le forze americane e le milizie filo-iraniane presenti in Iraq hanno compiuto diversi attacchi gli uni ai danni degli altri, ma il bombardamento di domenica 28 gennaio in cui hanno perso la vita tre soldati Usa potrebbe essere un punto di non ritorno.

Gli Stati Uniti avevano già annunciato alcune settimane fa l’avvio delle trattative per il ritiro delle  truppe dall’Iraq e quest’ultimo attacco rischia di accelerare l’uscita americana dal paese mediorientale, con conseguenze importanti sugli equilibri regionali e sulla capacità di azione della Coalizione anti-Isis, di cui fa parte anche l’Italia.

Gli attacchi

Il bombardamento contro la base Usa al confine tra Siria e Giordania è solo l’ultimo di una serie di attacchi che hanno coinvolto le milizie sciite filo-iraniane e le forze statunitensi negli ultimi mesi e arriva in un momento di rinnovata tensione tra il governo americano e quello iracheno.

L’uccisione a inizio gennaio di tre comandanti delle Forze di mobilitazione popolari (Pmu) - le milizie filo-iraniane inserite all’interno dell’esercito iracheno - a seguito di un attacco con drone aveva fatto insorgere il governo iracheno, che ha iniziato a chiedere con maggior forza il ritiro delle truppe Usa dal paese.

Lo stesso premier Shia al Sudani ha criticato la mossa americana, definendola una violazione della sovranità irachena e ricordando che le Pmu sono parte integrante delle forze armate nazionali. Le tempistiche dell’attacco non hanno di certo aiutato: i tre comandanti sono stati uccisi durante le celebrazioni per l’anniversario della morte di Abu Mahdi al Muhandis, ex vice capo delle Pmu, ucciso in un raid diretto contro il generale delle Guardie Rivoluzionarie iraniane Qassem Soleimani.

Venti giorni dopo, il 25 gennaio, è arrivata la notizia di un prossimo avvio di colloqui con gli Usa per stabilire quanto ancora le truppe americane potranno restare in territorio iracheno e in che modo la coalizione anti-Isis potrà continuare a operare senza gli Usa.

Gli Stati Uniti infatti sono presenti in Iraq - così come in Siria e Giordania - per affrontare la minaccia dell’Isis, ancora attivo nella regione. La missione ha avuto inizio nel 2014, tre anni dopo il primo ritiro americano dal paese e in concomitanza con la nascita del Califfato islamico.

Da ormai cinque anni l’Isis quale entità statale non esiste più, ma i suoi miliziani rappresentano ancora una minaccia per la sicurezza regionale e, in prospettiva, anche globale.

Di questa coalizione fa parte anche l’Italia, che all’interno della missione “Prima Parthica” può schierare tra Iraq e Kuwait un massimo di 1.005 militari, dotati di 118 mezzi terrestri e 11 aerei.

Il costo di questa missione è di 241,3 milioni, a cui si aggiungono i 31 milioni di una seconda missione Nato a cui Roma partecipa con 225 soldati, 100 mezzi terrestri e 4 aerei.

ll contingente italiano è il secondo più numeroso nell’area dopo quello degli Stati Uniti e ha il compito di addestrare i combattenti Peshmerga e di supportare la formazione delle forze di polizia irachene.

L’uscita degli americani dal paese, dunque, avrà degli effetti anche sul resto della coalizione e sulle capacità tanto degli altri contingenti quanto dell’Iraq nel portare avanti le missioni anti-Isis. L’intenzione degli altri partner è di restare in Iraq fintanto che il governo di Baghdad lo vorrà, ma la coalizione si troverà ad operare in uno scenario in cui gli equilibri di potere saranno ben diversi da quelli attuali.

Nuovi equilibri

L’allontanamento degli Usa dall’Iraq sarebbe prima di tutto una buona notizia per l’Iran e le sue milizie. Teheran potrà espandere la sua influenza su Baghdad e avere meno da temere per quanto riguarda la sicurezza delle forze a lei vicine presenti nel paese, ma non solo.

L’Iraq è parte di quel famoso “corridoio sciita”, grazie al quale l’Iran punta ad espandere la propria influenza fino al mediterraneo, dove si trova uno dei suoi principali nemici: Israele. Ma l’uscita dall’Iraq comporterà con molta probabilità anche l’abbandono della Siria.

La Russia e il presidente siriano Bashar al Assad potrebbero così riappropriarsi dei giacimenti di petrolio protetti dagli Usa nel nord-est, mentre i curdi del Rojava sarebbero costretti a trovare una forma di convivenza con il regime di Damasco per scongiurare la minaccia della Turchia e garantire la propria sopravvivenza.

Ma che ne sarà della minaccia jihadista? La coalizione anti-Isis si troverebbe senza un alleato importante, con un esercito iracheno migliore rispetto al passato ma che ha fatto fino ad ora affidamento sull’intelligence Usa e bisognoso ancora di addestramento, mentre resta da risolvere il nodo dei jihadisti e delle loro famiglie fermi nelle carceri e nei campi siriani.

I curdi del Rojava non hanno abbastanza risorse per gestire migliaia di persone in attesa di processo o di percorsi di riabilitazione e senza gli Usa la situazione rischia di peggiorare, con conseguenze negative per tutti.

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