A quasi due anni dall’invasione russa dell’Ucraina, l’Unione europea continua a sostenere militarmente l’esercito di Kiev, ma non ha ancora trovato una soluzione a uno dei problemi più urgenti emersi con lo scoppio del conflitto: la scarsità di munizionamento pesante. Dalla fine della Seconda guerra mondiale in poi, le priorità degli eserciti europei – e non solo – sono cambiate e i governi hanno investito sempre meno in linee di produzione considerate non più strategiche.

Gli stati hanno puntato su prodotti tecnologicamente avanzati, in grado di colpire a distanze sempre più lontane e con il minor coinvolgimento possibile dell’operatore umano. Da qui gli investimenti, sia in termini di acquisto che di ricerca, in missili balistici, ipersonici, droni e jet di nuova generazione. Le guerre, dunque, sono diventate sempre meno convenzionali e sempre più asimmetriche, con gli stati impegnati più in operazioni di peacekeeping che non in quelle denominate combact, che prevedono delle azioni offensive vere e proprie. I conflitti, poi, si sono spostati sempre di più nello spazio cyber, costringendo eserciti e governi a dirigere la propria attenzione e le proprie risorse verso un ulteriore dominio in cui i cambiamenti sono molto più rapidi rispetto a quelli tradizionali.

Tutti questi elementi hanno portato a una riduzione dell’attenzione proprio verso l’acquisto di munizioni pesanti, diventate quasi un retaggio di una modalità bellica del passato. Almeno fino allo scoppio della guerra in Ucraina.

L’esercito ucraino infatti fa largamente affidamento su questo tipo di materiale e consuma in media fra i 6mila e gli 8mila pezzi al giorno di artiglieria da 155 millimetri, con picchi che hanno toccato i 10mila. A loro volta i russi, specifica il Centro studi internazionali, hanno raggiunto cifre ben più alte, raggiungendo anche i 20mila colpi al giorno. Un numero enorme se si considera che gli Stati Uniti producono al mese meno di 15mila munizioni da 155mm.

Le munizioni in Europa

I paesi europei hanno messo mano alle loro scorte per venire incontro alle esigenze dell’Ucraina, ma né le munizioni stoccate negli ultimi decenni né quelle prodotte regolarmente sono sufficienti. La ceca Czechoslovak Group realizza 80-100mila pezzi l’anno, la tedesca Rheinmetall circa 70mila colpi, mentre la britannica Bae e la francese Nexter si fermano intorno ai 2.500. Nel 2022 le industrie europee sono riuscite a produrre circa 300mila munizioni, e i risultati del 2023 non sono stati all’altezza delle aspettative, nonostante gli sforzi a livello europeo.

A marzo, l’Ue ha messo a disposizione 500 milioni di euro dal bilancio comunitario fino a giugno 2025 per aumentare le capacità produttive delle industrie e raggiungere il milione di munizioni entro marzo 2024, ma a dicembre 2023 – rivela Reuters – solo sette stati hanno presentato degli ordini per l’acquisto di 60mila munizioni. Di questo passo, arrivare al milione entro marzo sembra decisamente impossibile, come ammesso anche dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius.

Sulla questione si è espresso di recente anche il commissario europeo per il Mercato interno, Thierry Breton. Per il funzionario europeo l’obiettivo è ancora raggiungibile, ma è necessario maggiore impegno da parte degli Stati e uno stop momentaneo alle esportazioni fuori dall’Ue.

A oggi, infatti, i contratti per l’export di munizioni siglati negli anni passati dalle industrie della difesa con acquirenti stranieri non sono stati recisi, e difficilmente si arriverà a questo punto. Le aziende dovrebbero pagare una penale, ma gli stati non sono interessati a sostenerle finanziariamente in questa scelta. I problemi dunque sono sia economici che politici. Per l’industria della difesa non basta sapere che l’Ue ha messo a disposizione dei fondi per l’aumento della produzione di munizioni, che secondo Breton sarebbe già aumentata del 30 per cento.

Ciò che serve sono maggiori garanzie nel lungo periodo da parte degli stati membri, per evitare che le munizioni finiscano di nuovo nel dimenticatoio una volta terminato il conflitto in Ucraina. Aumentare drasticamente la produzione in poco tempo richiede assunzione di personale o un aumento dei turni, la costruzione in alcuni casi di nuove strutture e l’acquisto di maggiori quantità di materie prime. Per questo motivo le aziende stanno chiedendo ai governi contratti che durino anche tra i sette e i dieci anni, così da non ritrovarsi con prodotti che il mercato non sarà poi in grado di assorbire.

Intanto le grandi aziende europee hanno mosso i primi passi verso l’ampliamento delle linee produttive. Czechoslovak group si è impegnata a produrre 150mila colpi l’anno entro i prossimi due anni, mentre Rheinmetall punta alle 500mila munizioni e la Saab alle 400mila. Anche le industrie italiane guardano con favore ai cambiamenti del mercato.
Nel nostro paese spiccano la Simmel Difesa, visitata anche da Breton nel 2023, la Oto Melara, controllata da Leonardo, e la Rwm, succursale italiana della tedesca Rheinmetall.

Materie prime e produzione

La necessità di produrre ingenti quantità di munizioni in poco tempo ha portato in evidenza anche un’altra carenza: quella delle materie prime. L’Italia, per esempio, dipende dall’estero per le polveri piriche e gli esplosivi di nuova generazione, e questo stesso problema affligge anche altri paesi europei. Come sa bene l’Ue. Non è un caso infatti che la Commissione si sia impegnata anche a identificare, mappare e monitorare la disponibilità delle materie prime utili alla difesa.
Intanto però l’aumento repentino della richiesta e la necessità da parte di più aziende di avere in breve tempo le stesse materie prime ha complicato ulteriormente le capacità di ampliamento delle linee produttive.

Ultimo ma non meno importante è poi il problema della mancanza di standard comuni in Europa e più in generale a livello Nato. L’Alleanza atlantica ha cercato di affrontare la questione anche in passato, ma a oggi si è arrivati ad avere uno stesso standard solo per i proiettili delle armi leggere. Solo in alcuni casi specifici le munizioni pesanti da 155 mm utilizzate da diversi tipi di obici possono essere intercambiabili, ma ciò comporta passaggi ulteriori che rendono poco agevole l’utilizzo di munizioni diverse da quelle specificatamente pensate per l’arma in questione.

Per la Nato, dunque, sarebbe un grande passo avanti avere degli standard comuni, così da aumentare il mercato di riferimento e migliorare anche gli investimenti pubblici nel settore. Un simile cambiamento potrebbe avere degli effetti positivi anche per le aziende, che vedrebbero ampliarsi la lista di potenziali clienti, ma allo stesso tempo la standardizzazione delle munizioni rischia di aumentare la concorrenza e dare il via a una corsa al ribasso dei prezzi. Prima di arrivare a questo punto, dunque, servirebbe una riforma del settore industriale europeo in grado di sostenere la produzione del Vecchio continente e scongiurare il rischio di monopoli o la chiusura delle industrie più piccole.

Sullo sfondo di questa corsa al riarmo, restano però degli interrogativi. Le munizioni di cui l’Europa si è scoperta sprovvista sono utili principalmente in caso di conflitti convenzionali e simmetrici, ma da decenni i paesi Ue non sono coinvolti in questo tipo di guerre ed è difficile immaginare che sarà così nel prossimo futuro. Il rischio è di concentrare risorse in qualcosa che è utile nell’immediato a un paese sostenuto dall’Ue, senza occuparsi per tempo di risolvere altre carenze che gli eserciti nazionali hanno.

In questo senso, la scelta dell’Ue di escludere il budget della Difesa dal Patto di stabilità potrebbe aiutare i paesi a soddisfare più richieste allo stesso tempo, ma il rischio è sempre quello di sprecare risorse sulla base di calcoli che si basano più su paure attuali e interessi economici che non su reali esigenze della Difesa.

Inoltre, un cambiamento delle priorità nella scelta dell’arsenale ha un impatto anche sulla postura che il paese stesso ha. Una scelta di non poco conto e con conseguenze significative.

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