Conte non è Moro, si è visto bene. E Moro non c’è, si vede anche questo. Sono rimasti però al centro della scena un post moroteo come Mattarella e un diversamente moroteo come Draghi.

Neppure loro “sono” Moro, è ovvio. Ma ne riecheggiano qualche tratto, ognuno a modo suo, e ne rendono attuale qualche monito.

L’orrore del vuoto, innanzitutto. Moro temeva il troppo potere, specialmente quando finiva in mani poco amichevoli. Ma temeva ancora di più, se possibile, lo svuotamento di quel potere, il suo farsi esile e leggero, il trovarsi improvvisamente esposto alla conquista da parte di forze ostili, lontane, imperscrutabili.

Mattarella vede il vuoto nella crisi di governo e nella fine anzitempo della legislatura. Draghi vede il vuoto nella consunzione degli equilibri della sua maggioranza e nella violazione di un sia pur minimo galateo della sua coalizione.

Sono due preoccupazioni complementari, pur se non identiche; e tutte e due hanno a che vedere con alcuni faticosi trascorsi morotei.

L’impazienza

E poi c’è l’impazienza, altro demone di Moro lasciato in eredità a chi vuol farsene carico. Dunque, ancora una volta a Mattarella e Draghi. Che la vivono, inevitabilmente, con qualche differenza.

L’uno chiamato a scandire il tempo misurandolo per settennati. L’altro costretto – suo malgrado – a inseguire una quotidianità più affannosa, quasi trafelata. Eppure tutti e due consapevoli che il palcoscenico infinito della storia e il palcoscenico grandioso del paese globale non consentono l’improvvisazione, ma richiedono semmai il calcolo e la precisione dei grandi orologiai.

Come scrive Vasilij Grossman nel suo bellissimo Stalingrado, «il tempo è sempre nemico dell’azzardo e sempre amico della forza autentica. Il tempo è amico di chi sta dalla parte della storia e nemico di chi è senza futuro. Il tempo smaschera sempre la forza finta e premia la forza vera. La forza preziosa del tempo, tuttavia, si manifesta solo quando gli uomini riescono a vedervi non un dono generoso della sorte ma un alleato rigoroso ed esigente».

Il tempo congruo della legislatura, giunto quasi a scadenza, costringe ora tutti ad accelerare. E se tutte queste accelerazioni, o almeno quelle che contano di più, quelle di Mattarella e di Draghi per l’appunto, non si coordinano tracciando percorsi di convergenza c’è il rischio che la corrente degli eventi e quella ancor più poderosa degli stati d’animo porti chissà dove.

Il tempo fa attrito, ma non dovrebbe farlo troppo. Per questo occorrerebbe che, al modo di Moro, il dialogo tra i vicini fosse sufficientemente comprensivo e quello tra i lontani (ma qui parliamo degli altri, evidentemente) non fosse troppo sordo.

Le esili spalle di Conte

Moro risale ormai alla notte dei tempi, e noi oggi ci troviamo alle soglie di altri tempi e di altre notti. Evocarlo a proposito dei contemporanei è sempre un esercizio arrischiato.

E lo è tanto più quando il paragone scivola sulle esili spalle da statista dell’ex premier Conte, che quel suo lontano predecessore avrebbe giudicato con uno sguardo di degnazione. Uno di quegli sguardi che mascheravano la sua severità dietro il vero della sua buona educazione.

Lasciamo da parte Conte, dunque, che moroteo non è mai stato. Evitiamo di chiedere riedizioni pedisseque di Moro anche a quanti magari si sono idealmente formati più vicino alla sua scuola.

Ma cerchiamo di non dimenticare del tutto alcune di quelle regole universali a cui egli s’è ispirato e di cui gronda ancora oggi il suo ricordo.

Montanelli, che pure non lo amava, ne scrisse così: «Non ha bisogno di riflettere per essere riflessivo, né di pesare le parole per trovarne la misura. La sua prudenza è tutta d’impeto, la sua cautela di getto».

Mediare tra la pazienza e l’impeto, e magari farne tutt’uno, è il compito impervio che i lontani successori di Moro trovano oggi davanti a sé. 

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