Il secondo tempo della sfida tra Joe Biden e Donald Trump è certo, dopo l’uscita di scena di Nikki Haley dalle primarie repubblicane. L’ex ambasciatrice presso le Nazioni unite dalla South Carolina ha annunciato la sospensione della sua campagna presidenziale, senza però sostenere il suo avversario, affermando che «dovrà conquistare quel pezzo di elettorato» che l’ha sostenuta finora.

A guardare freddamente le alternative presenti nell’agone politico americano però sembra che non ci sia tutta questa voglia di moderazione. Anche se la maggioranza degli elettori sostiene da mesi di volere “alternative” a due candidati estremamente impopolari, quando queste si presentano, come nel caso di Nikki Haley, vengono rifiutate.

Così come continua a non esserci lo spazio politico per un terzo candidato che attiri gli scontenti delle due principali famiglie politiche. Una misteriosa organizzazione chiamata No Labels, dal 2010 attiva a livello congressuale nel sostenere rappresentanti moderati nelle file repubblicane e democratiche, aveva diffuso un comunicato lo scorso novembre dove si diceva che avrebbero presentato un “ticket presidenziale”.

A presiedere l’organizzazione c’è l’ex senatore dem del Connecticut Joe Lieberman, già candidato vicepresidente nel ticket dem con Al Gore alle presidenziali del 2000 e noto per aver sostenuto un suo grande amico, il senatore repubblicano dell’Arizona John McCain, alle presidenziali del 2008 contro Barack Obama.

Nelle scorse settimane un altro membro dell’organizzazione, l’ex governatore del Maryland Larry Hogan, repubblicano moderato antitrumpiano, aveva detto che era in corso la ricerca di un “leader eccezionale” da presentare all’elettorato americano.

I rifiuti

Nel mese di febbraio No Labels aveva ottenuto l’accesso al voto in ben sedici stati e sono in corso i processi burocratici per essere presenti sulle schede di altri diciassette ma alcuni dei candidati potenziali avevano già declinato l’offerta: prima il senatore uscente dello Utah Mitt Romney poi il suo collega dem del West Virginia Joe Manchin, noto per essere stato l’ago della bilancia nel primo biennio di presidenza di Joe Biden, anche se avevano annunciato la loro uscita dall’assemblea, hanno rifiutato l’offerta. Manchin ha chiarito le sue ragioni: «Non voglio rischiare di essere un candidato-spoiler» e rischiare di far eleggere Donald Trump.

Anche Nikki Haley ha annunciato che non ha alcuna intenzione di lasciare il partito repubblicano.

Così venerdì i delegati di No Labels si riuniranno per un meeting riservato e decidere il da farsi, ma non decideranno su un nome. A questo punto però, c’è anche la possibilità che decidano di non fare nulla.

Alcuni critici, come l’ex stratega repubblicano Rick Wilson, fondatore dell’organizzazione antitrumpiana The Lincoln Project, sostengono che l’organizzazione ha scopi poco chiari: «Vivono dentro uno scenario di fantasia nel migliore dei casi. Nel peggiore, ci stanno mentendo», ha scritto Wilson in un articolo pubblicato sul magazine The Atlantic.

Lo spazio per un candidato che sia allo stesso tempo internazionalista in politica estera e moderato in materia fiscale, così come pragmatico sulla questione migratoria è semplicemente ridotto.

Anche gli elettori indipendenti, come dimostrato dalle loro scelte nel 2020, alla fine scelgono uno dei principali candidati.

Mistero dei finanziamenti

A rendere ancora minori le chance di una simile proposta politica è il mistero che circonda i donatori dell’organizzazione: l’accusa fatta dal gruppo progressista MoveOn è che in realtà stiano cercando di togliere a Biden preziosi voti al centro per favorire la rielezione di Donald Trump. Un’operazione sotto copertura dunque, nell’ipotesi di MoveOn, che però è tutta da dimostrare. Quello che raccontano i freddi numeri però è che al momento non c’è alcuna strada aperta per vincere al centro a livello nazionale.

L’unica possibilità, a questo punto, è che la senatrice uscente dell’Arizona Kyrsten Sinema, indipendente uscita dal gruppo dem a fine 2022, decida di candidarsi con loro, dopo che martedì ha annunciato che non correrà per un secondo mandato.

I sondaggi svolti nel suo stato di residenza prima di decidere di ritirarsi però, mostravano problematiche molto simili a quelle di No Labels: numeri bassi nei confronti di dem e trumpisti, nonostante donatori molto generosi. Sinema poi è troppo progressista per i repubblicani (favorevole all’aborto e alla legalizzazione delle droghe) e troppo conservatrice per i democratici, perché riluttante a votare per nuove tasse sui redditi più alti e restia a implementare nuovi programmi di spesa.

Se la teoria dietro No Labels fosse vera, dovrebbe trionfare come candidata indipendente alla presidenza. Più probabilmente, la aspetta una nuova carriera in qualche consiglio d’amministrazione popolato da ricchi manager. L’unica categoria dove il centrismo pragmatico ha qualche chance di vittoria.

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