La storia procede per cicli politici, pur se mai uguali l’un l’altro. Ogni ciclo è scandito da una crisi che ridefinisce le coordinate della politica.

La crisi degli anni Trenta e della Seconda guerra mondiale diedero vita alla stagione keynesiana del dopoguerra, interpretata da partiti di centro, destra e sinistra. In Europa, a esclusione dei partiti comunisti legati a Mosca, formazioni con culture e origini politiche diverse hanno imbracciato un paradigma economico comune, calato e sviluppato secondo le particolarità nazionali. Gli storici inglesi hanno chiamato questo periodo «l’èra del consensus», in cui sia i laburisti sia i conservatori, pur nelle loro differenze etiche, sociali e culturali, concordarono su un’impostazione di politica economica espansiva.

Sistemi in crisi

Furono i decenni in cui in tutta Europa i partiti costruirono lo stato sociale e svilupparono forme di economia mista tra privato e pubblico. Questo sistema entrò bruscamente in crisi negli anni Settanta tra shock petrolifero, inflazione, fine del gold standard, tensioni internazionali. Da questa transizione emerse una nuova risposta da parte dell’establishment politico ed economico: la globalizzazione, la liberalizzazione dei mercati e dei capitali, una ridefinizione del perimetro dello stato. Un nuovo “consensus neo-liberale” si sarebbe affacciato al mondo, prima costruito dai partiti conservatori anglo-americani degli anni Ottanta e poi intercettato e proseguito dai partiti della sinistra riformista negli anni Novanta.

La politica economica di Clinton e Blair non si scostò molto da quella dei loro predecessori di destra, e sostanzialmente lo stesso può dirsi per i partiti delle altre democrazie occidentali. Naturalmente ciò non significava che all’interno di un ciclo non ci fossero conflitti, la destra esprimeva un anticomunismo e un anti-sindacalismo radicale ad esempio, oppure esperimenti divergenti, come nel caso di Craxi e di Mitterand, ma essi ricadono all’interno di una stessa cornice paradigmatica.

Non a caso nell’Italia degli anni Ottanta si è avuto il divorzio tra il Tesoro e Banca d’Italia, emerse la necessità di controllare l’inflazione, mentre il presidente socialista francese dovette rinunciare per il contesto economico e internazionale a perseguire gli obiettivi più radicali e statalisti del proprio programma. Dunque il ciclo politico segna una direttrice, impone alcuni paradigmi comuni a gran parte delle forze politiche e dei paesi, che tende a durare fino alla conclusione dello stesso.

L’ultimo decennio è stato poi segnato dalla fine del ciclo neoliberale e dall’espansione della globalizzazione iniziato negli anni Ottanta, ed è stato caratterizzato da una crisi economica, culturale e sociale che ha prodotto, sul piano politico, populismo e sovranismo. Tuttavia, la pandemia prima e la guerra in Ucraina oggi hanno profondamente cambiato lo scenario, portando in superficie tendenze che potevano intravedersi soltanto fino a poco tempo fa.

Nuove tracce

In questo nuovo contesto viene da chiedersi se abbia ancora senso parlare di populismo e sovranismo. Negli ultimi tre anni il mondo appare esausto del passato sia perché sono emersi definitivamente cambiamenti di lungo periodo – come il protezionismo e un paradigma economico interventista diverso da quello neo-liberale – sia perché gli eventi hanno condotto l’ordine globale su nuove tracce, non soltanto la guerra in Ucraina ma un processo di deglobalizzazione che passa per le materie prime, la logistica, la ricerca di sovranità energetica e tecnologica da parte delle aree regionali.

Sovranismo e populismo sono due termini vaghi, applicati a tutti i partiti e candidati non centristi e in continuità con il trentennio appena passato, emersi negli ultimi dieci anni e che segnalavano lo scetticismo nei confronti dell’architettura politica, economica e istituzionale della globalizzazione, una sfiducia generalizzata nei confronti delle élite di governo. Oggi quell’architettura è completamente cambiata e la politica cambia con essa.

Si è passati in pochi anni da una domanda di liberalizzazione e apertura a una domanda di sicurezza e assistenza. L’Europa è l’esempio delle contraddizioni insite in questi cambiamenti. L’Unione europea è più stretta e solidale, ma anche più dirigista e interventista. Ciò dipende sia dalla risposta alla pandemia, emergenza che ha costretto ad accantonare l’austerity anche su impulso americano – dove l’amministrazione Biden ha varato un enorme piano di stimoli – sia dalla pressione dei partiti populisti e sovranisti.

Il risultato è che l’argomento che questi ultimi usavano per delegittimare l’Europa e mostrarne i limiti si è tradotto per gran parte in nuove politiche pubbliche europee, come il quantitative easing prolungato e il Pnrr. Al contrario, i partiti centristi si sono trovati ad attuare programmi che pochi anni fa avrebbero considerato populisti e anti-establishment.

Anche se quasi nessuno è disposto a riconoscerlo pubblicamente, il sistema europeo si è ibridato, costringendo l’alto – le istituzioni dominate dai partiti moderati di destra e sinistra – a fare ciò che chiedeva il basso – i partiti populisti e sovranisti – al fine di mantenere la sua posizione.

Nel frattempo, dopo la pandemia si è evoluto anche lo scenario internazionale. Il confronto tra Cina e Stati Uniti si è fatto più serrato, con ricadute protezionistiche e l’affermarsi ovunque nel mondo occidentale di uno stato protettore; la finanza ha coltivato l’opportunità di poter creare una nuova bolla per gli investimenti spingendo la transizione ecologica, d’accordo con i governi che hanno visto nel green deal un modo per legittimare nuove forme di spesa pubblica; l’aumento della domanda provocato dalle politiche fiscali, la necessità di materie prime per le nuove tecnologie e il restringimento dell’offerta dei fossili proprio per raggiungere gli obiettivi ecologici hanno creato le premesse sia per la crescita dell’inflazione sia per una “militarizzazione” delle catene di approvvigionamento; è aumentata progressivamente la sovranità sui confini di tutti i paesi occidentali per fronteggiare ondate migratorie sempre più ingestibili; infine è arrivata la guerra, che ha rimodulato l’ordine internazionale recidendo i rapporti orientali (russi ma anche cinesi) dei paesi europei e aggravato la crisi energetica in Europa.

Siamo, dunque, dentro una fase nuova. In questo capitolo, le vecchie categorie non hanno più senso. Non si tratta più di avversare la globalizzazione senza confini o chiedere una redistribuzione dei diritti e dei privilegi, ma di sviluppare nuove categorie in un mondo diverso.

Conflitti del futuro

Sul piano economico sta emergendo un nuovo consensus a destra e sinistra sul ritorno dello stato e sugli investimenti, i debiti pubblici si sono così ingigantiti che pensare a un ritorno all’austerity nel breve termine è illusorio, e allo stesso modo lo è l’idea di uscire dall’euro o far retrocedere l’integrazione sul piano economico.

La realtà impone di riconoscere sia la forza dell’ordine stabilito dalle istituzioni sovranazionali sulle nazioni sia i rischi politici di un ritorno al passato sul fronte fiscale. Inoltre, il vincolo atlantico si è nuovamente ristretto e le possibilità di andare al governo per forze smaccatamente filo-russe e filo-cinesi si ridurranno, così come l’Europa, indebolita dalla sua staticità e dalla scarsa disponibilità di materie prime, sarà chiamata prima o poi a una convergenza di mercato con gli Stati Uniti, a riannodare i fili di un libero scambio interno all’area euro-atlantica.

Il conflitto politico ci sarà, le divisioni anche, ma all’interno di queste nuove coordinate in un mondo più regionalizzato, più securitario e meno globalizzato. Il populismo, il sovranismo e anche il vecchio progressismo liberale sono destinati a trasformarsi o a sparire nel nuovo scenario.

Che tipo di raggruppamenti e ideologie ci aspetteranno è difficile ipotizzarlo, ma le nuove linee di frattura già si scorgono: ruolo dello stato nell’economia e nella difesa, estensione dei confini dell’Unione europea, politiche ambientali, gestione delle disuguaglianze economiche e sociali, posizione geopolitica e immigrazione. È su questi nuovi binari che si intrecceranno i conflitti del futuro, troppo diversi dal recente passato per insistere con categorie oramai esauste.

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