Quando, il 31 agosto prossimo, si concluderà la ritirata delle truppe, gli Stati Uniti andranno a fare compagnia alle grandi potenze che in epoca contemporanea hanno fallito in Afghanistan: l’Unione sovietica, che l’invase con 100mila soldati nel 1989 per ritirarsi dieci anni dopo, e l’Impero britannico, che vi combatté tre guerre (1839-1842, 1878-1880 e 1919).

I talebani hanno conquistato l’85 per cento del territorio, ormai sono alle porte della capitale Kabul. «La comunità internazionale venne qui vent’anni fa per combattere l’estremismo e portare stabilità, ma oggi l’estremismo è al livello più alto: hanno fallito», ha riassunto l’ex presidente Hamid Karzai.

Chiuso il capitolo afghano della “guerra al terrore” dichiarata dagli Stati Uniti dopo gli attentati dell’11 settembre 2001, si apre una fase completamente nuova, che vede la diplomazia di Pechino mobilitata per stabilizzare e ricostruire il paese.

L’interesse cinese

Sono due i motivi principali per i quali la Cina ha interesse che il vuoto di potere che si è aperto nel paese centroasiatico – col quale condivide una frontiera di 76 chilometri – venga colmato quanto prima.

Per Pechino è importante che sia formato un governo che controlli il territorio di quello che, al momento, è uno stato fallito, rifugio per movimenti islamisti che si muovono liberamente tra Afghanistan e Pakistan, attaccando i due vicini, entrambi confinanti con la regione autonoma uigura del Xinjiang, dalla quale la Cina teme infiltrazioni terroristiche.

Inoltre l’Afghanistan è un anello di congiunzione tra l’Asia centrale e il medio oriente attraversati dalla nuova via della Seta: devastato da decenni di combattimenti, è un terreno fertile per le compagnie di stato cinesi, che eccellono nei grandi progetti infrastrutturali (strade, ponti, ferrovie, centrali elettriche, reti telefoniche). Il paese ha le maggiori riserve inesplorate del mondo di rame, carbone, ferro, gas, cobalto, mercurio, oro, litio e torio.

A meno che gli studenti coranici non riescano a pacificarlo di comune accordo con gli altri attori politici locali e a svilupparne l’economia, completato il ritiro degli occidentali ci sarà ancora bisogno di un sostegno esterno.

È l’ora della Nato dell’est?

Come spesso accade nei contesti post guerra civile, a contare di più sarà chi avrà “gli scarponi sul terreno”. Ma la Cina – che negli ultimi tre decenni ha contribuito con 40mila militari a una trentina di missioni di peacekeeping sotto l’egida delle Nazioni unite – è pronta a spedire truppe in Afghanistan? Pechino non invierà contingenti militari per combattere, perché fedele al principio di “non ingerenza” e perché non ha reparti speciali né capacità operative per un contesto come quello delle aree di frontiera tra Afghanistan e Pakistan.

Tuttavia potrebbe aprirsi uno spazio per la Shanghai Cooperation Organization (Sco), la cosiddetta “Nato d’oriente” che ha appena festeggiato i suoi vent’anni e ha tra gli scopi fondativi quello di «compiere sforzi congiunti per mantenere e assicurare la pace, la sicurezza e la stabilità nella regione».

Di quest’organizzazione internazionale sono membri effettivi Cina, Russia, India, Kazakistan, Kirghizistan, Pakistan, Tagikistan e Uzbekistan, mentre l’Afghanistan figura tra i paesi “osservatori”. Da anni la Sco conduce esercitazioni militari congiunte, ma non ha un esercito comune, e le strategie dei paesi membri per il dopoguerra sono divergenti.

Il ministro degli esteri cinese, Wang Yi, è in visita in Turkmenistan, Tagikistan e Uzbekistan (12-16 luglio), per partecipare a una riunione dello Sco-Afghanistan Contact Group, per «promuovere assieme la pace e il processo di riconciliazione in Afghanistan, salvaguardando la sicurezza e la stabilità regionale aumentando gli sforzi per combattere i “tre mali” del terrorismo, del separatismo e dell’estremismo”».

Il 3 giugno scorso, Wang aveva già presieduto il IV incontro trilaterale con i suoi omologhi di Pakistan e Afghanistan, tracciando un cammino che prevede un ruolo di primo piano per la Cina – assieme al Pakistan – nella stabilizzazione dell’Afghanistan; la promozione della nuova via della Seta (Bri) in Afghanistan per favorire lo sviluppo dei collegamenti tra i tre paesi; sforzi comuni contro il terrorismo, in particolare contro gli indipendentisti uiguri inquadrati nello East Turkestan Islamic Movement (Etim). Contro questa minaccia la Cina può avvalersi del “meccanismo quadrilaterale anti-terrorismo” creato da Pechino nel 2016 assieme ai governi afghano, pachistano e tagiko.

Nel medio periodo l’asso nella manica di Pechino potrebbe essere la nuova via della Seta e, in particolare, l’estensione all’Afghanistan di quel Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec) che della Bri rappresenta uno dei progetti di punta.

Il Cpec ha per Pechino un valore strategico, in quanto la sua rete di oleodotti, strade e ferrovie che attraverserà da sud a nord il paese dei puri permetterà di incanalare il greggio importato dal medio oriente in un oleodotto che, dal porto pakistano di Gwadar (alle porte del Golfo di Oman), lo porterà direttamente nel Xinjiang, evitando il passaggio delle petroliere cinesi attraverso lo Stretto di Malacca.

L’autostrada per Peshawar

Secondo quanto riferito da fonti afghane al Daily Beast, Pechino ha già un accordo con Kabul per costruire un’autostrada che collegherà «Kabul a Peshawar che – ha riferito una fonte afghana vicina ai negoziati – implicherebbe che anche l’Afghanistan aderisca formalmente alla Bri».

A tal fine Pechino tratta sia col governo legittimo di Ashraf Ghani sia con i talebani. Suhail Shaheen, sabato scorso ha definito la Cina «amica». «Siamo stati in Cina tante volte e abbiamo buoni rapporti con loro», ha dichiarato il portavoce dei combattenti islamisti. «Se i cinesi vogliono investire  certamente garantiremo la loro sicurezza».

Shaheen ha assicurato che i talebani terranno a bada i miliziani uiguri dell’Etim, che secondo il XII rapporto dell’Analytical Support and Sanctions Monitoring Team delle Nazioni consegnato il mese scorso al Consiglio di sicurezza «è formato da diverse centinaia di membri, che si trovano principalmente a Badakhshan e nelle province afghane confinanti».
Molto attive sono anche le milizie islamiste di Tehreek-e-Taliban Pakistan (Ttp) guidate da Noor Wali Mehsud, oltre cinquemila fondamentalisti che hanno colpito obiettivi in Pakistan nella provincia del Balochistan dove c’è il porto di Gwadar gestito dalle compagnie cinesi.

E poi ci sono milizie di ribelli baluci che, in Pakistan, si battono con sabotaggi e attentati contro la nuova via della Seta cinese. Questi gruppi si sono riuniti sotto l’ombrello Baloch Raaji Aajoi Sangar che nel 2018 attaccò il consolato cinese di Karachi.

L’amicizia con Islamabad

Pechino può contare sul Pakistan (l’attore esterno più influente in Afghanistan), la cui relazione con la Cina, parallelamente al progressivo distacco dagli Usa di Islamabad e della sua casta militare, è stata elevata a livello di “partnership strategica”.

La Cina è il principale partner commerciale e fornitore di investimenti esteri diretti di un paese nel quale ha investito 25 miliardi di dollari in 46 progetti legati alla Bri e che è interessato alla pace e alla stabilità in Afghanistan per far crescere la sua economia.

Tuttavia Pechino in Afghanistan procederà con estrema cautela, perché, come ha aggiunto la fonte del Daily Beast, «certamente l’investimento cinese beneficerà l’economia con la creazione di molti posti di lavoro e, in assenza di altre attività economiche, molti gli daranno il benvenuto. Ma il quadro politico afghano resta diviso e alcuni leader tribali si opporranno alla Bri, non perché vi ravvisino degli svantaggi, ma perché attori esterni vorranno fermarla».

Ma l’attivismo della diplomazia cinese mira a convincere tutti dei potenziali vantaggi della Bri. Il 12 maggio scorso si è svolto a Xi’an il secondo summit della Cina con i paesi centroasiatici (C5+1), il primo vertice con ministri degli esteri svolto in Cina dall’inizio della pandemia.

Il gruppo informale è composto dai cinque stati centroasiatici che confinano con l’Afghanistan (Iran, Turkmenistan, Uzbekistan, Tagikistan e Pakistan) e dalla Cina. Anche questo vertice si è concluso con un impegno comune «a promuovere la riconciliazione pacifica dell’Afghanistan per mantenere la pace e la stabilità regionale» e a integrare tutti i paesi centroasiatici nella grande rete di infrastrutture e commerci della nuova via della Seta.

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