È impressionante la differenza fra Giorgia Meloni e Pedro Sánchez. Chi sostiene che destra e sinistra non esistono più, che i confini sono sfumati, dovrebbe guardare a come divergono, oggi, l’Italia e la Spagna, i due grandi paesi del sud Europa: nelle politiche economiche, sociali, ambientali.

Sánchez ha coraggiosamente sfidato le destre, l’alleanza data vincente fra i Popolari e Vox (che ha perso e ora grida al «golpe», mostrando il suo scarso senso dello stato e delle regole democratiche). Ha quindi trovato un accordo con Sumar per un programma molto avanzato, su due pilastri.

Uno sociale: l’aumento dei salari, la riduzione dell’orario di lavoro, un’ampia serie di misure che vanno dal rafforzamento della sanità all’impegno a rendere universale e gratuito l’accesso agli asili nido, a un piano per aumentare del 20 per cento l’edilizia pubblica.

L’altro ecologico: più investimenti per ridurre del 55 per cento le emissioni nel 2030 e quindi, in prospettiva, per arrivare a emissioni nette nulle nel 2050. Alla base vi è una riforma fiscale redistributiva, che trasferisca risorse dai grandi gruppi energetici e bancari alle casse pubbliche. Beninteso, la strada per l’investitura a premier di Sánchez non è scontata, bisogna ancora trovare l’accordo con i partiti catalani e altri gruppi minori, ma a oggi sembra probabile.

Fanalino di coda

Prendiamo ora l’Italia. Che intanto, dopo un anno di governo Meloni, è tornata a essere il fanalino di coda della crescita in Europa. Se la Spagna alza il salario minimo e i salari in generale, da noi il problema viene esplicitamente negato; la toppa è un debole sconto fiscale, provvisorio, peraltro in debito.

Nel frattempo, si conferma la flat tax per gli autonomi, al 15 per cento, fino alla soglia molto alta di 85mila euro di fatturato (già aumentata da Meloni, l’anno scorso), creando un’enorme disparità di trattamento con i lavoratori dipendenti e i pensionati.

Con queste misure, peraltro, si fa un favore alle piccole imprese poco produttive che non vengono stimolate a innovare e migliorarsi, ma a restare come sono, a pagare poco i lavoratori e semmai (per tenersi sotto la soglia di 85mila euro) a evadere.

Per poter pagare tutto questo, oltre ad aumentare il debito, il governo disinveste nella transizione ecologica, nel welfare e nei servizi pubblici, perfino nella sanità (i cui finanziamenti diminuiscono in rapporto al Pil). Contravvenendo alle indicazioni europee, non fa nulla per toccare le rendite – fra cui tassisti, balneari – cioè gli interessi di quelle corporazioni che sono poi spesso anche suoi elettori. Perfino la tassa sugli extraprofitti delle banche, peraltro concepita e presentata molto male, avrà praticamente effetti nulli.

Beninteso, nella manovra ci sono anche un paio di cose positive: l’aumento della cedolare secca sugli affitti brevi e la norma per favorire i controlli su chi ha debiti con il fisco. E infatti è qui che si concentrano le critiche di Forza Italia: vedremo se rimarranno.

Quel che è certo è che la sinistra spagnola ha scelto un modello di sviluppo radicalmente alternativo a quello di Meloni: fondato sulla redistribuzione e l’equità fiscale, come base di politiche sociali, per la conversione ecologica e per la dignità del lavoro.

Meloni ha scelto invece la disparità fiscale, i favori alle corporazioni, il disinvestimento dal sociale e dall’ambiente, dal pubblico, lo svilimento del lavoro. È la via del declino. Destra e sinistra esistono ancora, come insegnava Bobbio: si dividono sull’idea di uguaglianza. E ce ne accorgiamo sulla nostra pelle.

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