L’inverno è alle porte, le scorte stanno finendo e l’Afghanistan è sul ciglio del baratro. È imperativo dar forma e sostanza al nuovo ordine: tutto sembra pronto per l’annuncio del governo, ma i negoziati intra-talebani si sono rivelati più lenti e laboriosi che non la presa della capitale. I vincitori promettono inclusione e ogni bene, mentre le loro scelte danno segnali opposti. Cosa significa, in fin dei conti, emirato islamico, in un mondo in cui vale soprattutto la reputazione e il riconoscimento fra pari? Come verrà governato?

Fino a ieri i militari occidentali combattevano in difesa di una repubblica islamica, la cui costituzione, pur senza citare espressamente la sharia, statuiva che nessuna legge dovesse contravvenire i principi sacri dell’islam.

In Afghanistan la repubblica è arrivata con la guerra al terrore, dopo che gli Stati Uniti nel 2001 hanno rigettato la resa del mullah Omar. Tuttavia, nella narrazione talebana, l’emirato islamico, pur sconfitto, non si è estinto. In questi anni sul mensile al Somood (saldezza, resistenza) si sono susseguiti i comunicati del suo shura council: comunicati protesi a condannare il governo di Kabul come incapace e impotente davanti ai crimini dalle truppe d’occupazione, e intenti a giustificare il jihad per «attuare il sistema islamico di governo e assicurare la vera pace e stabilità dell’Afghanistan».

All’indomani della conquista di Kabul il portavoce talebano, Zabihullah Mujahid, mostrava su twitter una bandiera dell’emirato modificata rispetto al tradizionale vessillo talebano: niente professione di fede (la shahada), ma al centro, fra messi di grano, libro sacro aperto e sol dell’avvenire, la data 15 muharram 1415, corrispondente al 24/25 giugno 1994, la fondazione da parte del mullah Omar.

Non è chiaro, nell’odierna fluidità del quadro politico domestico, quanto questa nuova iconografia sia destinata ad attecchire: restano esposte sia le bandiere talebane tradizionali, sia il tricolore nero-rosso-verde della repubblica, inizialmente esibito come atto di sfida e resistenza ai nuovi padroni armati.

Dietro lo scontro delle bandiere c’è un conflitto politico che riguarda la concezione del potere, dell’idea moderna di sovranità (il consenso popolare, la legittimità divina) ed in ultima analisi l’immaginario geopolitico delle forze islamiste. In assenza di alternative, nel caso afghano la questione è quanto la vittoria talebana si tradurrà in dominio dei mullah o in un governo nazionale inclusivo di altre voci. Il tema è cruciale, perché tocca il problema del riconoscimento dell’emirato da parte della comunità internazionale, con i Talebani che beneficiano delle «relazioni costruttive» con Cina, Pakistan, Iran, Turchia e Russia e ambiscono a presentare un quadro politico nazionale coeso, con controllo dell’intero territorio nazionale: da qui i tentativi, falliti, di negoziato con la resistenza nel Panjshir.

Revival jihadista

“Repubblica islamica”, formula a cui approda la stessa rivoluzione iraniana, si trova dunque contrapposta a “emirato islamico”, forma politica distintiva abbracciata dal revival jihadista. Già nel maggio 2019, al Qaida proclama in Afghanistan «vittoria all’ombra dell’emirato islamico». Gli emirati esistenti (gli Emirati Arabi Uniti) sono dinastici e non aggiungono il qualificativo “islamico”, mentre la natura consigliare del movimento talebano apre domande sulla designazione del governo. Il concetto di emirato richiama un’autorità spirituale – l’emiro – che da principe combattente dei fedeli governa le terre oltre le quali non c’è accordo né pace: l’emirato è per definizione in espansione verso il califfato, storicamente abolito nel 1924. “Repubblica islamica” acquista i tratti di un ibrido: certo, repubblica islamica è lo stesso Pakistan da cui i Talebani storicamente traggono nutrimento. Ma repubblica islamica è anche la Mauritania; ci sono repubbliche islamiche nel nord della Nigeria, per non parlare della storia delle isole Comore. Dunque, traiettorie molto differenti.

L’emirato talebano degli anni Novanta emerge come un inedito eterodosso, proclamato dopo una conquista della capitale culminata nella tortura a morte dell’empio presidente Najibullah, il cui cadavere venne trascinato per le strade di Kabul e infine appeso a un semaforo. Le funzioni di governo vennero affidate a un consiglio che si riuniva a Kabul. Quanto all’emiro, il mullah Omar, indossato il caffetano del Profeta, si mantenne a Kandahar, distante dai problemi della rudimentale amministrazione del territorio, interpretando con sempre maggior convinzione il ruolo di guida carismatica con poteri di veto. Di fatto, il regime articolava un sistema di relazioni sviluppatosi a Kandahar, e mentre dichiarava di seguire il modello dei primi fedeli del Profeta, poggiava sui codici tribali del mondo Pashtun.

Dopo il dissolvimento e il ripiegamento, negli anni di guerriglia i Talebani si sono dotati di un governo-ombra delle periferie di territorio di cui hanno controllato larga parte dell’economia, a partire dai circuiti informali e dalle frontiere. In tempi recenti, hanno cacciato i governatori delle province sostituendoli con i propri governatori-ombra, che hanno preparato la presa del potere. Kabul ha fatto eccezione: qui hanno piazzato una figura molto influente, il mullah Shirin Akhund, già capo militare del mullah Omar nonché fratello del comandante che guidò formazioni di foreign fighters (al Qaida inclusa) contro le truppe americane. Contemporaneamente i media telebani hanno annunciato le figure a cui sono stati affidati interim ministeriali. Abdul Qayyum – noto come Zakir – è forse la figura più nota: a lungo detenuto a Guantanamo, è stato poi arrestato e scarcerato in Pakistan, ed agisce oggi come ministro della Difesa dell’emirato. I Talebani hanno reso noto anche le nomine del governatore della Banca centrale, del ministro degli Interni e dell’Istruzione, nonché del capo dell’intelligence.

Oltre la logica tribale

Il principale risultato politico ottenuto negli ultimi vent’anni dal movimento degli studenti coranici è stato il superamento dei confini della lingua pashto e dei riferimenti etno-tribali, per sviluppare un’articolata trama di alleanze locali, un richiamo nazionale e relazioni internazionali. Se questa strategia facilita il successo militare, l’espansione tuttavia espone i Talebani a scelte complesse, che mettono a dura prova l’unità del movimento. La stessa scelta di sedersi al tavolo di Doha e negoziare con gli americani ha comportato profonde fratture. La principale linea di faglia può forse essere identificata fra i Talebani del sud, quelli del nord, e quelli dell’est del paese. Questi ultimi, rappresentativi di circa un terzo dei combattenti, sono stati i primi a entrare a Kabul: la Brigata Badri 313 della rete Haqqani ha assunto il controllo della sicurezza a Kabul e aeroporto, dando segni di irrequietezza per come poi venivano distribuite le carte.

Al tempo stesso, tre grandi notabili della capitale si sono inizialmente ritagliati un ruolo politico nell’offrire ai Talebani, antichi nemici, una sponda di dialogo in cambio di credito politico. Questi sono l’ex premier Hamid Karzai, il capo dell’Alto consiglio per la riconciliazione nazionale Abdullah Abdullah, e il “macellaio di Kabul” Gulbuddin Hekmatyar, da sempre vicino al presidente turco Erdogan, graziato dalla repubblica e sollevato dalle sanzioni Onu dopo una lunga clandestinità. Fra i tre è proprio quest’ultimo ad apparire più vicino al disegno di riconciliazione talebana – seguendo un copione che solleva domande sul ruolo che potranno avere anche gli altri signori della guerra (Ismail Khan, Dostum).

Nel complesso, mentre i leader talebani si mostrano alle telecamere e qualche funzionario della repubblica ha dato la propria adesione al nuovo regime, le scelte sugli interim di queste prime due settimane non recano traccia di aperture di sostanza al di fuori della cerchia dei capi con turbante. La stretta su Kabul è significativa: il sindaco, Daud Sultanzoy, che pure aveva rivendicato di essere rimasto al suo posto, è stato avvicendato dall’ex ministro dell’istruzione talebana Hamdullah Nomani, che si è affrettato a dichiarare in vigore la sharia nella capitale.

Preparatisi per anni, i Talebani sono stati sorpresi dalla rapidità della presa del potere. Le incertezze dei passaggi politici in corso e le rivalità intestine pongono, da ultima, la questione della guida suprema dell’emirato.

Tutto lascia pensare che il perno del governo sarà il mullah Abdul Ghani Baradar, già capo negoziatore a Doha. Dopo i tre giorni di riunione della jirga di Kandahar, dove è stato riverito come zaeem, il mullah Hibatullah Akhundzada è confermato nel ruolo di autorità suprema.

La società inascoltata

I dubbi circa questa designazione sono stati alimentati dal suo silenzio fino ad oggi, dopo che in passato era stato il più visibile magistrato talebano, il riferimento per gli emiri in materia di decretazione e corti islamiche. Hibatullah (“dono di Allah”) emerge nel ruolo di terzo Emir al Momineen (comandante dei fedeli dell’emirato) già nel 2016, dopo che un drone uccide il suo predecessore e secondo emiro, il mullah Akhtar Mansoor, obbligando il Pakistan ad ammettere la presenza sul proprio territorio della struttura talebana apicale che dai tempi della fuga di Omar le diverse intelligence indicano nella shura che si riunisce a Quetta.

La sua designazione si impone su due candidati di primo piano, Mohammad Yaqoob, figlio del mullah Omar, e Sirajuddin Haqqani, leader dell’omonimo clan. Di lui, cresciuto da sfollato in una madrassa nel Belucistan le cronache raccontano che abbia approvato la scelta del figlio di immolarsi in un attacco suicida. Nel 2019 le divisioni sorte dalla contrarietà di alcuni leader talebani ai negoziati di Doha lo colpiscono direttamente: padre, fratello e diversi membri della famiglia di Hibatullah vengono uccisi da una bomba nella grande moschea che frequentano vicino a Quetta.

La proclamazione dell’emirato islamico oggi avviene in circostanze molto diverse da quelle degli anni Novanta, a partire dal fatto che i Talebani arrivano al potere dopo aver mobilitato la popolazione contro l’occupazione straniera. Prima di far sventolare la bandiera dell’emirato a Kabul, i Talebani si sono premurati di far saltare il governo della repubblica islamica in anticipo rispetto al ritiro degli americani, così da evitare che all’ordine politico della repubblica restasse anche solo un barlume di legittimità. Essi hanno probabilmente recepito forte e chiaro il messaggio da una società che oggi è assai più articolata e determinata di quanto non fosse vent’anni fa, trovando nella diaspora un interlocutore quotidiano tramite internet. A questa società, l’emirato islamico non offrirà alcun riverbero di rappresentanza.

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