Nel distretto di Msatria, regione di Sfax in Tunisia, Amen non vuole metterci piede. «Ci sta la mafia lì, quelli che costruiscono tutto. Stanno anche da noi, dappertutto, ci improvvisiamo tutti costruttori di quelle barche, per sopravvivere». In questo luogo bisogna saper gestire le curiosità del cronista e riuscire a stare un passo indietro. Girano soldi, interessi e disperazione.

E queste tre cose insieme innescano imprevisti continui. La strada che porta dalla stazione di Sfax verso El Amra è un lungo rettilineo, attorno soltanto terra rossa e ulivi, centinaia di ulivi. I migranti sub sahariani camminano per circa 35 km, a piedi lungo questa strada per raggiungere il mare. A volte per riposare si siedono lungo i bordi della strada stremati, sventolando bottiglie di acqua ormai vuote. Attirano l’attenzione per chiedere qualcosa da bere. A centinaia si siedono sotto gli ulivi in cerca di un po’ d’ombra. Hanno dai 14 ai 30 anni, alcune donne e bambini piccoli.

«Siamo in attesa che ci chiami, quando tutto è pronto andremo in spiaggia e partiremo» mi dice Hussain che ha 16 anni e viene dalla Costa d’Avorio. «Abbiamo già pagato cinquemila dinari per questo viaggio, è la terza volta che proviamo ma veniamo scoperti dalla guardia costiera. Ma è solo questione di tempo e partiremo ancora». Mille e cinquecento euro circa costa un viaggio low cost sui barchini di ferro dei disperati. Non sono imbarcazioni vere e proprie ma lamiere di ferro assemblate in maniera artigianale a cui viene attaccato un motore. Alcuni pezzi si vedono anche in mezzo alla terra, finiscono lì, tra i migranti divisi in gruppi, per ciascun gruppo c’è un capo che è quello che prenderà accordi con il trafficante.

Quando ci rimettiamo in macchina per andare verso casa di Alì a El Amra la macchina rallenta davanti a un cubo grezzo di mattoni. Si sente un rumore forte di fresa, operai al lavoro. Non posso scendere ma mi spiegano che quella è la fabbrica dove vengono costruite le barche della morte. Il lavoro va avanti ventiquattr’ore su ventiquattro. Sulla spiaggia di El Amra i pescatori hanno paura, parlano di nascosto, anche Amen mi apre il suo garage e vedo dei pezzi di latta marroni, anche nella sua officina si fabbricano le barche della morte. Nella Tunisia alla fame, a molti fa comodo collaborare con i trafficanti di esseri umani e prendere una piccola percentuale, lavoro che servirà per realizzare il mezzo di trasporto adesso più in voga. Ci sono anche i pescatori che collaborano con la gendarmerie. Lo fanno perché hanno paura che gli vengano affondati i pescherecci o che la polizia stessa gli sequestri reti e tonnare, se non forniscono informazioni utili su dove trovare le fabbriche. Ma bastano pochi soldi per convincerli. I complici qui si confondono tra i cittadini normali, padri di famiglia, persone che fino a poco tempo vivevano una vita dignitosa e ora subiscono la crisi.

Basta attendere poche ore sulla spiaggia per vedere arrivare un camion bianco e rosso da cui scendono decine di disperati, subito dopo dal camion scende anche il barchino della disperazione, sufficientemente inadatto a trasportare 40/50 persone da riuscire a sfuggire anche ai radar di controllo.

La bassa marea di quel punto di mare è perfetta per riuscire a spingere la barca fino all’ultimo e salire tutti. Si sentono le urla dei bambini piangere. Davanti ai miei occhi sulla spiaggia di El Amra un cimitero di decine di barche lamiera arenate sul bagno asciuga, abbandonate.

In un post pubblicato sulla sua pagina Facebook il 31 marzo 2023, la direzione generale della Guardia costiera nazionale tunisina ha dichiarato che la sera precedente le sue unità avevano preso d'assalto tre case a El-Amra, governatorato di Sfax, e avevano sequestrato nove barche di metallo oltre a ferro, attrezzature per la saldatura e un piccolo camion utilizzato per trasportare le barche e i migranti.

«Le unità di sicurezza sono state informate da alcune persone qui dell'esistenza di un'officina clandestina per la produzione di barche di metallo» mi dice Amen mentre mi osserva commentare la pagina Facebook dell’autorità tunisina. Alcuni traggono dei vantaggi pratici da queste informazioni, denaro per lo più, dai 100 ai 150 euro, lo stipendio di un mese. Ma è difficile mettersi contro i passeur o ancor peggio contro i trafficanti di esseri umani.

A Lampedusa

Sul molo di Lampedusa alle otto del mattino circa mille persone sono stritolate una sull’altra in fila indiana in attesa che una nave li imbarchi e li porti a Porto Empedocle, dovranno lasciare l’isola. Gli stessi migranti osservati sulle spiagge tunisine oggi hanno attraversato il Mediterraneo, sono i sopravvissuti. Eppure nei loro volti non c’è ancora alcun sollievo. Passano più di sei ore prima che inizino le operazione di imbarco, alcune persone si sentono male per il caldo e per la fame. Alcuni operatori umanitari distribuiscono bottigliette d’acqua fresca, scatta una rissa per un pacchetto di cracker. Scene apocalittiche che non hanno il sapore di alcuna vittoria. L’isola esplode.

Quasi tutti i migranti approdati in questi giorni a Lampedusa sono partiti da Sfax, tutti attraverso la rete di trafficanti che in quella particolare zona della Tunisia agisce indisturbata. È raro che da quel punto partano i tunisini, per loro sono previsti viaggi con barche più sicure e leggermente più costosi, almeno 2000 euro, partenza da Kelibia o Mahdia. Ma in questi giorni, qualche ragazzo tunisino è arrivato a Lampedusa, si è infilato nelle barche di ferro con i migranti subsahariani, perché in comune questi ragazzi hanno la voglia di fuga dai loro paesi di origine.

«Tutti sanno a Sfax da chi andare e come fare, sanno che c’è una rete molto forte di passeur che consegnano le persone ai trafficanti di esseri umani per pochi spicci di percentuale» mi racconta Mohhamed sul molo dove attende di lasciare l’isola, si protegge da ore la testa con un’asciugamano, all’improvviso arriva un operatore della croce rossa e lo aiuta a distendere le gambe, massaggiandolo. Dopo 4 giorni in mare schiacciato su quella barca ha crampi continui.

La rete

Di notte sulla spiaggia di el Ambra la gendarmerie distrugge le barche rimaste sulla battigia, ma non basta. Passa qualche giorno e le partenze riprendono, i luoghi dove fabbricarle cambiano continuamente ed è sufficiente un giorno per realizzarle. Tutti qui a Lampedusa ricordano ogni particolare e condividono contatti con i parenti o gli amici rimasti ancora in Tunisia. Anche i social aiutano a mettersi in contatto con la rete delle partenze clandestine.

La tensione sul molo è altissima, una bambina di sette anni sviene all’improvviso, la madre piange disperata. Sono tunisini, è partita lei con i quattro figli da sola. La bambina ha avuto un colpo di calore, le versano dell’acqua addosso e piano piano si riprende, ma solo fisicamente. I ragazzi, in centinaia hanno alle spalle giorni di digiuno e fatica. Quelli che non partono rimangono in giro per l’isola in cerca di cibo, entrano nei negozi e nelle panetterie, i ristoratori preparano da mangiare anche per loro.

Attorno turisti increduli trascorrono serenamene le vacanze. Quando si alzano dal tavolo del ristorante i migranti si precipitano a mangiare gli avanzi nei piatti, fossero anche soltanto delle lische di pesce. Mentre molti lasciano Lampedusa per raggiungere centri di accoglienza in giro per l’Italia, altri ne arrivano sull’isola, che soffre la fatica e l’abbandono.

Domani arriva pure la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, a Lampedusa su invito della presidente del Consiglio Giorgia Meloni. In serata è attesa poi a New York, dove resterà fino alla metà della prossima settimana per l'Assemblea Generale dell'Onu.

Fonti italiane riferiscono di una telefonata avvenuta in giornata tra Giorgia Meloni e il presidente della Repubblica francese Emmanuel Macron, sull'emergenza immigrazione. Un colloquio seguito alle richieste fatte ieri da Meloni alla presidente della Commissione europea e al presidente del Consiglio europeo Charles Michel. Le misure straordinarie per la gestione dei flussi di migranti potrebbero entrare sotto forma di emendamento nel cosiddetto decreto legge Caivano. L'ipotesi viene definita concreta da ambienti di governo. Il decreto con «misure urgenti di contrasto al disagio giovanile, alla povertà educativa e alla criminalità minorile, nonché per la sicurezza dei minori in ambito digitale» è stato presentato in Senato, da dove partirà l'esame parlamentare.

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