Chi di microchip ferisce, di materie prime hi-tech perisce. Suona così l’avvertimento che Pechino ha rivolto agli Stati Uniti annunciando restrizioni sulle esportazioni di grafite. A partire dal 1° dicembre prossimo, i produttori della Cina – da dove proviene il 65 per cento della preziosa polvere grigia che finisce nei mercati internazionali – per spedirla in altri paesi dovranno ottenere il permesso al governo, che dunque potrà decidere se, a chi, e in che quantitativi venderla.

La grafite è una componente fondamentale delle batterie agli ioni di litio, diventate negli ultimi anni ubique, essendosi imposte nell’industria automobilistica dopo aver conquistato quella dell’elettronica. È classificata come “materia prima essenziale” (Crm) da Stati Uniti, Unione europea, Giappone e Canada, in quanto indispensabile per la transizione dai combustibili fossili all’elettrico. Secondo l’Agenzia internazionale per l’energia (Iea) la sua domanda crescerà di 20-25 volte tra il 2020 e il 2040. Oltre che nell’automotive, trova importanti applicazioni nella difesa, nell’aerospazio e nella chimica. La Cina ne è l’esportatore numero uno, i principali importatori globali sono gli Usa.

Il monopolio della produzione di grafite è un tipico esempio di quella dipendenza dalla Cina che - nei settori considerati strategici - Usa e Ue puntano a superare, grazie alle rispettive politiche di “de-risking”. Il dominio di questo mercato evidenzia però anche le difficoltà di emanciparsi da un paese in grado di sfornare prodotti di buona qualità a prezzi imbattibili.

«Noi consumatori siamo disposti a pagare di più per avere materiali sostenibili nelle nostre batterie?», si è domandato Hans Erik Vatne, amministratore delegato della norvegese Vianode, che dall’anno prossimo inizierà a fabbricare grafite sintetica. Lo stesso interrogativo vale per i microchip avanzati, la cui produzione - su impulso dell’amministrazione Biden - Tsmc sposterà parzialmente da Taiwan negli Usa e in Giappone, e per l’intera filiera hi-tech.

Componenti chiave

Pechino ha comunicato le nuove regole sull’export di grafite lo scorso fine settimana, dopo che, martedì 17 ottobre, l’amministrazione Biden ha limitato ulteriormente la vendita alla Cina di semiconduttori che, ha sostenuto la segretaria al commercio, Gina Raimondo, «potrebbero alimentare scoperte nell’intelligenza artificiale e nei computer sofisticati che sono fondamentali per le applicazioni militari cinesi».

La guerra hi-tech tra Washington e Pechino si combatte ormai a carte scoperte, tanto che i media cinesi non hanno esitato a parlare di rappresaglia cinese nei confronti di “comportamenti egemonici” degli Stati Uniti, sottolineando che alcuni tipi di grafite, proprio come certi microprocessori, vengono utilizzati negli armamenti.

La mossa sulla grafite fa seguito a quella su germanio e gallio. Le restrizioni di Pechino all’export di questi due metalli utilizzati nei semiconduttori sono entrate in vigore il 1° agosto scorso, e dall’inizio dell’anno il loro prezzo è aumentato rispettivamente del 20 e del 13 per cento. La Cina detiene inoltre il monopolio delle 17 cosiddette “terre rare”, anch’esse fondamentali per l’energie pulita, la difesa, l’automotive, l’elettronica e l’aerospazio.

«Questo è solo l’inizio delle nostre contromisure, la cassetta degli attrezzi cinese ha molti altri strumenti disponibili», aveva dichiarato Wei Jianguo dopo la stretta su germanio e gallio. L’ex viceministro del commercio aveva previsto che «se le restrizioni hi-tech nei confronti della Cina diventeranno più severe in futuro, lo saranno anche le contromosse cinesi».

Si tratta di ritorsioni che mettono in dubbio l’efficacia della strategia statunitense. Ovvero, dal momento che la Cina possiede gran parte delle materie prime hi-tech, è possibile negarle l’accesso ai semiconduttori avanzati (dei quali quelle materie prime sono componenti chiave) senza mettere a repentaglio intere filiere - come quella dell’automotive (nel caso della grafite) o degli stessi semiconduttori (per il germanio e il gallio) - esposte alle reazioni di Pechino?

La rimonta di Ernie

Le strategie di sicurezza nazionale ed economica dell’amministrazione Biden puntano a frenare l’avanzata della Cina nei settori dei semiconduttori, dell’intelligenza artificiale e dell’informatica quantistica e, nello stesso tempo, a riportare negli Stati Uniti la manifattura dei microchip, scesa dal 37 al 12 per cento di quella globale tra il 1990 e il 2022.

La scorsa settimana è stato approvato il divieto di vendita in Cina dei processori per l’intelligenza artificiale A800 e H800, progettati dalla californiana Nvidia proprio per rispettare le precedenti restrizioni varate dall’amministrazione Biden, e poter vendere in Cina chip meno performanti.

Ma i giganti cinesi di internet Alibaba, Tencent, ByteDance e Baidu non hanno atteso che entrasse in vigore, e hanno fatto incetta dei velocissimi A100 e H100, acquistandone per 5 miliardi di dollari. Sì, perché mentre i divieti sono ufficialmente diretti al settore militare, tra le vittime “collaterali” ci sono le startup che stanno cavalcando l’impetuoso sviluppo dei “large language models” (Llm), come Ernie - la cui versione 4.0 è stata svelata il giorno dell’annuncio delle ultime restrizioni Usa -, che conta 45 milioni di utenti e che, secondo lo sviluppatore Baidu, può competere con GPT4.

Mentre i microchip Nvidia proibiti si possono acquistare, in piccoli quantitativi e al mercato nero, a Huaqiangbei, il più grande supermarket dell’elettronica del mondo, nella metropoli di Shenzhen.

Martedì scorso, la Semiconductor Industry Association ha fatto sapere che, pur riconoscendo la necessità di proteggere la sicurezza nazionale, «controlli eccessivamente ampi e unilaterali rischiano di danneggiare l’ecosistema dei semiconduttori statunitense senza promuovere la sicurezza nazionale poiché incoraggiano i clienti esteri a guardare altrove».

Ma la paura della Cina e le conseguenti valutazioni geopolitiche hanno preso il sopravvento sulla razionalità economica.

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