Io, in tutta coscienza, credo che compito del magistrato sia quello di ristabilire il primato della legge, quando si ritiene sia stata violata. Se c’è stato un omicidio o si sospetta un traffico di droga, con il supporto della polizia giudiziaria io devo risalire ai colpevoli. E se questi presunti colpevoli fanno parte di un’organizzazione che si dedica per statuto alla progettazione e attuazione di fatti

criminosi e si chiama Cosa nostra, io devo combatterla.

Ma il magistrato deve essere “terzo”, disse qualcuno. Sicuramente lo è il giudice che in Tribunale deve decidere della colpevolezza o dell’innocenza dell’imputato, ma io che indago ho il dovere di individuare e perseguire i colpevoli cercando le prove a loro carico ma anche quelle a favore, come prescrive il codice di rito.

Mentre i criminali ammazzavano giornalisti, colleghi, poliziotti, facevano saltare autovetture con il tritolo, noi avremmo dovuto mantenere un certo aplomb nei confronti di quelle belve assassine. Siamo stati rigorosi e non ci siamo fatti travolgere dall’emergenza, infatti, abbiamo sempre cercato prove e riscontri, ma avevamo ben chiaro un fatto: quelli erano i nostri avversari. Siamo stati giudici, non giustizieri.

Eppure c’era chi diceva che la specializzazione dell’attività dei magistrati non andava bene, addirittura era contraria alla democrazia. Questa posizione, in realtà, ho sempre fatto fatica a capirla. Perché oggi esistono magistrati specializzati nei reati contro i minori, quelli più versati sul fronte delle indagini bancarie, ci sono stati il pool di Mani pulite e prima ancora quello contro il terrorismo, eppure la nostra democrazia mi sembra che goda di buona salute.

Migliorabile magari, ma ancora con una certa efficienza. E allora, forse era solo quel pool che non andava bene.

A tal proposito mi viene in mente il Manzoni, l’incontro dei “bravi” con Don Abbondio e la frase: “Questo matrimonio non s’ha da fare. Né domani, né mai”.

Infine, c’era un’ultima accusa, probabilmente la più sentita tra quelle che venivano mosse dal fronte dei nostri “amici” e che tradiva il suo vero, unico obiettivo. Secondo qualcuno il pool in realtà era strumentalizzato e stava lavorando per i comunisti. In quella terra di Sicilia, da sempre serbatoio di voti per la Democrazia cristiana, quei giudici, e in particolare quel “comunista” di Falcone, stavano lavorando per un cambio di governo.

Non riuscendo a vincere le elezioni il Pci stava manovrando per utilizzare la via giudiziaria che avrebbe scardinato un blocco di potere. Tutto questo, par di capire, anche con l’appoggio del monarchico Paolo Borsellino, da giovane animatore della formazione di destra del Fuan e che alle elezioni parteggiava per il Msi.

A forza di sentire certe accuse e insinuazioni, piano piano ci accorgemmo che l’opinione pubblica e il clima intorno a noi stavano cambiando. Ad esempio, Falcone se la prese molto quando i condomini del suo palazzo di via Notarbartolo, dove oggi c’è l’albero Falcone, scrissero al “Giornale di Sicilia” per prendere le distanze dal pericoloso condomino che metteva a rischio la loro incolumità e i loro beni.

Le lamentele sulle scorte erano un classico e trovavano sfogo sempre sulle colonne del “Giornale di Sicilia”, che pubblicava lettere come quella firmata da una signora che affermava di abitare nelle vicinanze di casa Falcone.

«Regolarmente tutti i giorni (non c’è sabato e domenica che tenga), al mattino, durante l’ora di pranzo, nel primissimo pomeriggio e la sera (senza limiti di orario), vengo letteralmente ‘assillata’ da continue e assordanti sirene di auto della polizia che scortano i vari giudici. Ora io domando: è mai possibile che non si possa eventualmente riposare un poco nell’intervallo del lavoro? O quanto meno seguire un programma televisivo in pace?» «Perché non si costruiscono per questi ‘egregi signori’ delle villette alla periferia della città, in modo tale che, da una parte, sia tutelata la tranquillità di noi cittadini-lavoratori, dall’altra, soprattutto, l’incolumità di noi tutti che, nel caso di un attentato, siamo regolarmente coinvolti senza ragione».

Aveva ragione Giovanni quando lucidamente affermava: «La mafia non è un cancro proliferato per caso su un tessuto sano. Essa vive in perfetta simbiosi con la miriade di protettori, complici, informatori, debitori di ogni tipo, grandi e piccoli maestri cantori, gente intimidita o ricattata che appartiene a tutti gli strati della società. Questo è il terreno di cultura di Cosa nostra con tutto quello che comporta di implicazioni dirette o indirette, consapevoli o no, volontarie o obbligate, che spesso godono del consenso della popolazione».

Già, la mafia... Sono passati quasi quarant’anni dall’“avventura” del pool che vi sto e mi sto raccontando. Ma c’è anche un lunghissimo prima, e c’è un dopo che giunge fino a oggi.

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