Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Forse qui, ad Acireale, è possibile questa rara occasione dell’uomo di sentirsi comodo, di vivere confortevolmente nel Sud. Facciamo l’ipotesi di un uomo medio, cioè di ragionevole censo, che abbia per esempio due ettari di agrumeto, oppure quattro appartamenti, oppure un equo stipendio di impiegato.

Avendo la sua residenza in questa città egli può godere i privilegi moderni che offre la metropoli, senza doverne tuttavia subire le angherie, la sporcizia, i clamori, il disordine, la sensazione malinconica di essere un uomo qualsiasi sperduto in mezzo alla folla; e nello stesso tempo avere il gusto della vita di provincia, quel tepore quasi fisico, quel raccoglimento umano che solo il piccolo centro urbano riesce a garantire. Intendiamo naturalmente l’esistenza del borghese, di colui che, in una maniera o nell’altra, può pagarsi da vivere e non ha problemi.

In tal caso allora la provincia è tutta una maniera speciale di vivere, più lenta, ma anche più intensa che in qualsiasi altro posto del mondo. Anzitutto la casa! Essa è più piccola, ma più economica, a volte appartiene alla stessa famiglia da generazioni, ci sono odori puntuali e rassicuranti da una stanza all’altra, affacciandosi alla finestra si vedono le stesse persone passare ogni giorno alla stessa ora, e giù abbasso c’è quasi sempre il posto per parcheggiare la macchina.

Poi gli amici. Essi sono sempre a quattro passi da casa, fanno parte del paesaggio, sai dove trovarli ogni ora del giorno e puntualmente li ritrovi infatti; non esiste altrove un sentimento di amicizia così intenso: con gli amici sei stato a scuola, sei stato appresso alle prime donne, vi siete prestati soldi, vi siete picchiati, offesi, riappacificati.

Le mogli si fanno visita. Solo nella provincia infatti le signore si fanno ancora visita, secondo un’ etichetta precisa, all’ora del vespero. Ed ancora quello stato confortevole: le distanze brevi dalla casa al luogo di lavoro, la scuola onesta per i figli, il cibo genuino nelle vecchie botteghe, i prezzi moderati. E quella infinità di piaceri sottili, soprattutto nel gusto del tempo libero: la partita a carte in una vecchia stanza gialla del circolo, quell’ora di discussione violenta col giornale spiegato dinnanzi, la meticolosa partita a biliardo, le passeggiate sottobraccio, il tempo per leggere un buon libro, i comizi politici assaporati in piazza come uno spettacolo, con le famiglie che stanno allineate sui balconi, il piacere, l’accanimento, il tempo libero per la politica.

Quasi tutti gli uomini politici italiani vengono dai piccoli centri di provincia: le grandi città fabbricano ingegneri, luminari della medicina, affaristi, commercianti all’ingrosso, capitani d’industria, ma in realtà in Italia comandano gli sconosciuti uomini che vengono dai piccoli paesi; chiedete dove sono nati il novanta per cento dei parlamentari, dei procuratori generali, dei direttori dei ministeri. Nella provincia persino la scuola è migliore, più ragionata; i genitori incontrano i professori e possono informarsi, i professori hanno più tempo per gli alunni e più intenzione di ben figurare nell’ambiente, le lezioni particolari costano di meno, non c’è penuria di aule.

E infine le donne! Chi vuole proteggere le sue ha l’agio di averle sempre sottomano, può controllarle, ammonirle, accompagnarle, i costumi sono severi. E chi vuole invece tentare le donne degli altri non corre il rischio di perderle continuamente nella folla, il giro monotono della vita gliele ripropone continuamente dinnanzi, è una conquista molto più difficile ma anche più comoda e riposante.

E in provincia siete comunque sempre qualcuno. La gente si conosce a vicenda, il rispetto umano è un obbligo sociale; un avvocato che cammini per la via di una città riceverà cinque o sei frettolosi saluti di conoscenti, nella via di un paese godrà di cento dovuti omaggi e si sentirà un grand’uomo. Tutto questo accade forse ad Acireale, anche se non esattamente così.

Ma la verità è che qui la provincia ha un sapore diverso, di autentico privilegio sociale, poiché ad Acireale manca quell’ultima componente umana della provincia, quella cosa invisibile che continuamente inquina il piacere della vita borghese: la noia! Acireale è forse la più fortunata delle città siciliane. La ricchezza anzitutto. Essa è situata nel cuore della vallata più fertile dell’isola, sullo strapiombo di un immenso agrumeto che, dalle alte colline dell’Etna, scende dolcemente fino al mare: giardini d’aranci e limoni per chilometri, a perdita di occhio, un’ autentica fabbrica di miliardi, una moltiplicazione di denaro che la terra assorbe e continuamente restituisce.

È una indagine economica che non è stata mai tentata: si potesse tuttavia calcolare in termini esatti il reddito annuo di questa popolazione, si scoprirebbe probabilmente che esso è superiore a quello della zona industriale di Priolo, che pur segna gli indici primato nel Meridione.

È una ricchezza antica, tradizionale, costruita adagio per centinaia di anni, strappando un lembo dietro l’altro alle falde del vulcano, scavando la terra per cercare l’acqua, rinunciando alla suggestione del benessere immediato per impiegare il denaro nuovamente nella terra, a scavare altri pozzi, costruire nuovi canali di irrigazione, livellare i declivi, conquistare continuamente altra campagna al vulcano. Così per centinaia di anni. Ma la favolosa prodigalità della natura e la pazienza degli uomini non costituiscono le sole componenti di questa ricchezza, ce ne sono altre che tuttavia hanno lo stesso sapore antico: un lavorio di generazioni pazienti che hanno costruito una pietra sull’altra.

Acireale ad esempio è un centro di studi nobili, nel significato che a questo termine si attribuiva forse nel primo Novecento: qui sorgono i collegi più famosi del Sud: il Pennisi, il S. Michele, il S. Luigi che per decenni hanno costituito l’ambizione di migliaia, decine di migliaia di famiglie benestanti siciliane.

I collegi con i pavimenti tirati a cera, i refettori lucidi come cristalli, le sale di scherma per gli alunni, il giardino, la cappella sontuosa, le rette mensili favolose; riuscire a pagarle era già un diploma di benessere che, nei piccoli paesi dell’interno, determinava il grado di rispettabilità di una famiglia. Migliaia e migliaia di studenti che nemmeno la vicinanza del capoluogo riusciva a strappare ad Acireale: oro colato per l’economia dell’ intera popolazione, per i fornitori, i librai, gli insegnanti, gli educatori.

E attorno a questa tradizione scolastica, quasi sempre di iniziativa religiosa, le chiese. Ce ne sono cinquanta ad Acireale. Anche questo è economicamente un fatto importante. Le cattedrali più fastose, si elevano dove la fede della popolazione è maggiormente confortata dal benessere: più alte e splendide sono le chiese e più pingui sono le loro rendite, più ricchi i fedeli, più numeroso il clero. Il quale per tradizione è sempre un amministratore oculato e paziente come nessun altro, non disperde mai o dissipa il denaro, ma pazientemente lo accumula e lo difende.

Ad Acireale vivono duemila preti, monaci e religiose che in massima parte governano i collegi della città e quindi ne sorvegliano il benessere, la cultura e la buona coscienza. Non c’è in tutto il Sud un Carnevale più fastoso di quello acese, ma nello stesso tempo più educato, più riguardoso, osservante di tutte le buone regole morali del divertimento; a mezzanotte precisa si brucia in piazza il Re Burlone, si spengono tutte le luci ed è subito Quaresima. I soli che bivaccano ancora nella strade, che fiutano le donne degli altri, che schiamazzano, fischiano, tirano bombette e aspettano l’alba, sono i catanesi.

Ecco. Tutto quello che Acireale è o rappresenta, è condizionato dalla vicinanza con Catania. Dall’una parte e dall’altra le prospettive sono diverse. Per i catanesi Acireale è soltanto una loro gradevole periferia, una rapida escursione domenicale, una zona di passaggio, il luogo dove si fanno i migliori gelati, un posto panoramico dove andare dopo il tramonto con una ragazza.

Non la considerano nemmeno un sobborgo, ma una cosa loro, un po’ più distaccata, un po’ più vaga, e non se ne preoccupano poiché sono convinti che un giorno le case di Catania vi si sovrapporranno, come Milano ha fatto con Monza o Sesto S. Giovanni. Probabilmente accadrà così, poiché Catania è una città animata da una forza quasi animalesca di espansione: strozzata, chiusa, ostacolata da ogni parte. Preme confusamente a spallate in tutte le direzioni, ha già raggiunto tutti i paesini del versante etneo da Misterbianco a S. Giovanni La Punta, ad Acicastello, seminandoli confusamente di palazzi, e preme ora proprio verso Acireale.

Quando l’autostrada sarà costruita, farà un sol boccone degli ultimi chilometri che ancora restano. Vi porterà la sua famelica attività di cose nuove, la sua tumultuosa foga commerciale, ma anche la sua immondizia, il suo disordine, le valanghe di automobili, l’assalto alle aree edilizie ancora sfruttabili. Questa è la prospettiva che i catanesi hanno confusamente di Acireale: un sobborgo, una strana periferia con troppe chiese, ottimi gelati, uno stupendo panorama, molte aree edificabili.

Acireale a sua volta intuisce questa prospettiva e si difende. Il cittadino acese, anche se non lo confesserà mai, subisce una sorta di complesso di inferiorità verso il vicino di casa così arrogante, verso il catanese violento, manesco, danaroso, che spende un milione con la facilità di una carta da mille, e spende mille lire con la condiscendente maestà di uno che ne spendesse centomila, il catanese che pretende di comandare la politica o si illude di farlo, che decide il destino della provincia, che arriva dovunque con la benevolenza un po’ collerica del padrone.

Il cittadino acese cerca di compensare, di celare questo complesso, con un vago disprezzo verso il capoluogo, una specie di alterigia che lo induce ad isolarsi, a prendere dalla grande città solo le cose utili che essa può offrire, l’università per i figli, gli spettacoli ad alto livello artistico, una rappresentanza o un monopolio commerciale, i magazzini all’ingrosso, i grandi medici, i grandi avvocati, e rifiutare tutto il resto, stare il più possibile lontano, senza interessi comuni, lasciando perdere qualsiasi occasione di affare o di litigio che inevitabilmente si concluderebbe con la rindondante prepotenza catanese.

Per tutto il resto, appunto, Acireale tende ad isolarsi nel suo privilegio provinciale, nel suo confortevole tepore, nel piacere, nell’interesse per quelle cose infinitesimali che la grande, l’affannosa città ha ormai smarrito o distrutto. Per mascherare il suo complesso, la piccola Acireale non accetta il confronto con la grande Catania: dice d’essere migliore! E per molte cose, nella loro reale misura umana, lo è effettivamente: è più erudita nella media della sua popolazione, è più cortese, più pulita, più ordinata, più bella, più civile. Ha ancora intatte tutte le piccole cose e le piacevoli virtù della provincia ed è riuscita miracolosamente a conservarle ad un palmo appena dalla metropoli.

La biblioteca di Acireale, cosiddetta Zelantea, è un modello del suo genere, con circa quindicimila volumi, molti dei quali sono esemplari unici e straordinari che filologi di tutta Italia vengono a consultare. I suoi bar conservano sempre il fascino sbiadito dei caffé antichi, con le poltrone di velluto, le grandi specchiere, gli angoli segreti dove il gusto del gelato è ancora oggi un rito. In questa città, pullulante di chiese, conventi, sagrestie, statue di Santi, monachelle, processioni, ci sono ben tre night club di una certa classe.

Ed i circoli di cultura sono come in ogni altra piccola città del Sud: le sale da bigliardo immerse in una penombra verde, i giornali con la patetica stecca di legno ed il lucchetto, le sale da gioco dove sotto Natale lo scopone cede qualche settimana al brivido del baccarà. Anche qui sono cioè luoghi di incontro umano, ma il tono è diverso, i soci hanno più denaro, manifestano una continua curiosità culturale, organizzano o frequentano conferenze, mostre di pittura, proiezioni cinematografiche.

Si sente anche che, in queste piccole assemblee borghesi, le discussioni politiche non sono mai vaghe, ma hanno una consistenza precisa; poiché gli acesi sono anche incredibilmente astuti, riescono impercettibilmente ad esser dentro tutte le grandi manovre politiche dell’Oriente siciliano; dietro ogni apparato ritrovate infallibilmente qualcuno di loro. Comandano e probabilmente imbrogliano per la loro parte, ma senza dare troppo nell’occhio, con una discrezione che è anch’essa una delle virtù della provincia.

Questo loro privilegio, ch’essi sono riusciti finora a difendere con una cura gelosissima, è però anche il loro più grave difetto: segna sostanzialmente la loro sconfitta. La paura di tutte le cose che potrebbero troppo bruscamente cambiare la loro condizione, il desiderio di restare isolati per non compromettere il benessere, la pazienza sottile con cui sono attaccati a tutte le cose antiche, hanno in realtà distrutto le ricchezze moderne di Acireale e ne hanno compromesso l’avvenire. Questa città, posta al centro di una delle zone più lussureggianti di Europa, dominante una plaga marina di incredibile bellezza naturale, è senza dubbio il territorio turistico più affascinante dell’isola. Potrebbe essere famosa come Sanremo e invece non è niente.

Guardate dall’alto della panoramica quella vallata che si stende da Capomulini fino a Scillichenti, quel mare di giardini, quei paesini sbriciolati sulla scogliera, quei porti minuscoli che non hanno eguali in alcun’altra riviera mediterranea, le case dei pescatori arrampicate in cima ai dirupi di sciara, le acque verdi e immobili come cristallo. Dove esiste uno scenario più fantastico? Ma per scendere laggiù bisogna percorrere ignobili stradine di campagna, non c’è una funivia che rechi dalla collina al mare, non esiste alcuna attrezzatura turistica, non c’è nemmeno un grande albergo su tutta la riviera, nemmeno un camping, un campo di tennis, una piscina, una locanda.

Siamo dinnanzi ad una favolosa ricchezza la più importante della economia moderna oltraggiata dalla indifferenza, dalla cupidigia con cui ognuno ha pensato solo alle cose che già possedeva e che gli bastavano. C’è un fatto sintomatico: quando venne varato il progetto dell’autostrada Catania Messina, ad Acireale qualcuno sostenne addirittura ch’essa era opera superflua e dannosa poiché avrebbe modificato violentemente l’ordine naturale del panorama e dell’agricoltura, e trascinato nella sua scia tutti i rischi e gli avventurieri dell’economia moderna.

Era l’ultimo, patetico tributo sentimentale ad un vecchio ideale di provincia che stava per essere sopraffatto: la nostalgia delle cose ordinate ed immobili al loro posto, il silenzio delle strade, le amicizie puntuali, i grandi collegi aristocratici e misteriosi come isole, il buon odore di caffé nei vicoli, il conforto delle case e delle abitudini borghesi. Dietro cui però, ed anche qui dolente, sta una realtà che Acireale riesce sempre pudicamente a nascondere come nessun’altra città: circa cinquemila disoccupati stagionali nel bracciantato e duemila uomini che hanno dovuto espatriare.

Ora l’autostrada avanza dall’una e dall’altra parte, come una tenaglia, su questa città quasi felice che però ha troppo ignorato e così banalmente dissipato gran parte della sua ricchezza. Laggiù al Sud, con un rumoreggiare confuso, i palazzi di Catania avanzano verso queste colline.

C’è qualcosa di nuovo nell’aria, di fremente, ed anche gli acesi finalmente se ne sono accorti: hanno varato un meticoloso piano regolatore che ragionevolmente esclude l’industria per puntare tutto sul turismo e l’agricoltura, stanno studiando la possibilità di un rilancio grandioso della floricoltura su tutte le colline, come già accade lungo la riviera ligure, hanno chiesto il finanziamento per tutta una serie di progetti: due grandi alberghi termali, una funivia fino al mare, una cittadella dello sport.

Ma passeranno cinque o dieci anni prima che queste opere, gli alberghi sulla riviera, le strade di accesso, i camping, i locali pubblici, le piscine, i porti turistici, possano essere realizzati. Se mai lo saranno. E intanto, fra due anni appena, l’Autostrada del sole rovescerà sulle rive dello Stretto e verso la Sicilia due milioni di turisti in più i quali vorranno trovare giustamente alloggio comodo e confortevole, cibo a buon prezzo, le strade per muoversi rapidamente in auto, le spiagge, i dancing e tutte le altre cose che il turista pretende per la sua vacanza. Andranno altrove a cercarsele! Il peggio è che nemmeno altrove, in Sicilia, riusciranno poi a trovarne.

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