Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Per poter vedere l’intero porto di Augusta bisogna salire sul tetto dell’hangar per dirigibili. Ad Augusta esiste l’unico hangar per dirigibili di tutta l’Italia, forse è davvero l’ultimo hangar per dirigibili che esista in tutto il mondo. Per dare un’idea della sua vastità, diremo che è lungo, largo ed ampio quanto la navata centrale della basilica di San Pietro che è la chiesa più grande della terra.

È più alto di un palazzo di dodici piani: in lunghezza potrebbe accogliere una nave di cinquemila tonnellate; ed è così largo che negli ultimi tempi ci sono state costruite dentro due file di case di abitazione ad un piano.

La gente abita in queste case, che a loro volta sono racchiuse dentro questa gigantesca cattedrale: non sente rumori, i tetti non sono mai bagnati dalla pioggia, estate o inverno chi si affaccia al balcone vede un cielo di cemento. L’hangar fu costruito durante la prima guerra mondiale, circa cinquant’anni or sono, quando ancora gli aeroplani erano fragili carcasse di tela e fili di ferro, e gli strateghi ritenevano che il dominio dell’aria si potesse conquistare solo con i dirigibili, lenti, maestosi, possenti, con la cabina appesa sulla pancia, gli aviatori distesi sulle amache che ogni tanto si sporgevano e gettavano una bomba sulle trincee nemiche. La marina italiana fece costruire questo hangar per conquistare il dominio del Mediterraneo centrale e poter bombardare qualsiasi incrociatore e corazzata avversaria.

Lo concepirono gigantesco onde poter ospitare qualsiasi tipo di dirigibile, persino quelli della stazza dei Graf von Zeppelin che era riempito con un milione di metri cubi di elio, era mosso da quattro motori navali e portava una carlinga capace di duecento passeggeri.

Poi passò la guerra, gli aeroplani divennero sempre più piccoli, più metallici, più solidi, lucenti, micidiali, veloci; bastava una raffica di mitragliatrice attraverso l’elica per far scoppiare un gigante dell’aria. Infine il Graf von Zeppelin, al termine di una trasvolata atlantica, si incendiò (nel cielo di New York se ben ricordo; sono cose lontanissime) si afflosciò e seppellì in un mare di fiamme equipaggio e passeggeri. Gli hangar per dirigibili divennero pezzi da museo. Ovunque nel mondo vennero demoliti o adibiti ad altro uso (se ne fecero teatri, cinema, caseggiati popolari, fabbriche di aeroplani).

Tranne ad Augusta dove invece rimase. Era uno dei più grandi del mondo, le sue porte tutte di ferro erano alte trenta metri e per aprirle dovevano essere azionate da due motori da rimorchiatore. Ancora oggi nessuno sa cosa si debba fare di questo hangar, né l’amministrazione militare, né quella civile. Intanto serve per guardare dall’alto l’immensa rada di Augusta, uno degli spettacoli più impressionanti che la Sicilia possa offrire ai giorni nostri.

Nell’interno dell’hangar, per tutta la lunghezza, quasi appesa al tetto con una serie di barre di acciaio, corre una lunghissima passerella, alla quale si arriva salendo una scala da vertigine.

Percorsa questa passerella (si ha l’impressione di camminare prodigiosamente nel vuoto, anzi di galleggiare entro un edificio da fantascienza) si sbuca sul tetto dell’hangar. Vento e sole come sulla cima di una piccola montagna: alle spalle la pianura verdissima di Brucoli fino al golfo di Catania, a destra le sagome fiammeggianti della Rasiom, a sinistra l’isola di Augusta, gialla e piatta; e dinnanzi l’intero golfo, una distesa d’acqua bianca, immobile, formicolante di petroliere di tutti i tonnellaggi, cisterne piccole come rimorchiatori, ed altre gigantesche come transatlantici.

Laggiù in fondo, per chilometri e chilometri, i pontili di acciaio delle industrie, ciminiere, vapori, aloni gialli sull’orizzonte. Forse è l’unico luogo da dove la potenza vitale dell’isola si esprima con la pienezza di uno spettacolo. Dopo Genova, questo è il più grande porto di tutta l’Italia.

Eccola laggiù Augusta, unita alla terraferma da un sottile ponte di pietra. Vista così dall’alto la città ha l’evidenza di un rilievo su una carta geografica: i contorni dell’isola rotondi, il mare interno di un colore verde profondo, il mare aperto e lontano di un tono azzurro e bianco, con le strisce nitide delle correnti, i piccoli palazzi gialli allineati lungo le vie, la distesa bianca delle saline con i mulini a vento che girano lentamente, l’idroscalo deserto, la fila delle torpediniere grigie allineate lungo il molo, il groviglio dei rimorchiatori neri e rossi, una fila lunghissima di auto ferme dinnanzi al passaggio a livello e un treno che avanza lentamente nella campagna.

A giudicare dalla velocità e dalla distanza ci vorranno almeno dieci minuti prima che arrivi al passaggio a livello, e intanto le auto sono diventate trecento, poi quattrocento, ci sono camion, autocisterne, pullman, carri, biciclette... Per questo sottile binario che recide l’isola dalla terraferma passano quasi quaranta treni al giorno, ognuno dei quali provoca l’occlusione del passaggio a livello per dieci o quindici minuti.

Per quasi metà dell’intera giornata Augusta resta esclusa dal resto del mondo; dovesse accadere una catastrofe, dovrebbero fermarsi anche i pompieri, le autoambulanze o i carri armati. Accade così che la popolazione, invece di espandersi nel retroterra, cercare zone residenziali più ampie, servizi più comodi, case di abitazione a minor prezzo, resti abbarbicata all’isola.

Restano soprattutto gli impiegati ed i funzionari degli enti civili, gli ufficiali delle amministrazioni militari e appresso a loro naturalmente i commercianti, gli operatori economici, gli artigiani. Abitare sulla terraferma significa infatti la certezza di incocciare comunque in quel passaggio a livello, correre il rischio di arrivare tardi in ufficio o al lavoro, tornare tardi a casa, non avere il tempo di pranzare e tornare a bottega, perdere i clienti, sciupare comunque inesorabilmente tempo.

Restano così tutti sull’isola, che raggiunge una concentrazione di popolazione impressionante: non ci sono strade di città siciliane che la sera brulichino di tanta gente come ad Augusta, di tanti negozi affastellati quasi l’uno sull’altro, di tante automobili parcheggiate dovunque, persino sui marciapiedi e addirittura sulle piazze. Tuttavia non è questo isolamento, questa specie di distacco, che rende Augusta così diversa da qualsiasi altra città siciliana. E’ la natura stessa della città, le cose che vi accadono dentro.

L’isola di Augusta sorge all’estremità nord della rada, ma in un certo senso la conclude e la delimita, e tutto quello specchio d’acqua, lungo venti chilometri, è suo. Il porto le appartiene e con esso tutte le cose che vi accadono, anche la gente che vi arriva.

Qui arriva ogni giorno un fiume umano, centinaia, migliaia di uomini da tutto il mondo, dall’Africa, dall’America, dall’Asia, dalla Russia; parlano tutte le lingue, sono biondi ed altissimi, bassi e camusi, negri, asiatici; portano da tutti gli altri porti del mondo notizie diverse, curiosità, esigenze, bisogni, sigarette, malattie veneree, denaro.

Arrivano e ripartono, ed altri ne vengono senza soste. Tutte quelle navi, le cisterne, le petroliere da ottantamila tonnellate, i carghi per il concime, e tutti gli equipaggi che vi sono sopra appartengono ad Augusta. E debbono venire qui, non a Siracusa che ha il porto troppo piccolo, né a Catania che è troppo lontana e disagevole: le navi debbono attraccare proprio a quei dieci moli industriali che si protendono in mezzo alla rada, e gli equipaggi debbono sbarcare ad Augusta, qui debbono far vistare i documenti, avere i visti di imbarco, avere i nulla osta; qui debbono acquistare, pagare, dormire, prendere il caffè, passeggiare, cercarsi una donna d’occasione per la franchigia della sera.

Sono circa trecentomila i marittimi che arrivano ogni anno in questo porto, a bordo di circa seimila navi da carico e petroliere. Augusta vive soprattutto di questo, e per questo è diventata una città che nelle sue strutture sociali ed economiche non rassomiglia a nessun’altra del Sud, una popolazione di scaricatori, ormeggiatori, piloti di rimorchiatori, spedizionieri, impiegati di agenzie marittime, locandieri, ufficiali di marina, militari, doganieri, guardie di finanza, barcaioli, carpentieri, almeno sette o ottomila persone che lavorano attorno a questo inesauribile flusso commerciale.

Ed ecco allora che questa piccola città gialla, reclusa, immalinconita per secoli dalla sua stessa solitudine (molti italiani la conoscono ancora soltanto perchè sede di un penitenziario e per i duecento bombardamenti aerei che la brutalizzarono nei tre anni di guerra), questa mite cittadina borghese ha cominciato segretamente, lentamente a rassomigliare a un quartiere di Amburgo o Barcellona, ad uno degli angiporti che si spalancano sul mondo.

Con la sospettosa pudicizia del vecchio Sud, il quale crede sempre che l’apparenza borghese sia la migliore possibile e la più civile: per cui gli scaricatori di porto qui non portano berrettoni con la visiera di cuoio, ma la sera hanno giacca e cravatta e passeggiano al corso, né alcuno ha mai organizzato balere con «entraineuse» per gli equipaggi, e le locande, le bettole, i caffè, cercano sempre di avere la squallida dignità di alberghi o ristoranti. E le prostitute stanno nelle case ad attendere, hanno la loro zona alle spalle del porto, chiamata sinistramente il «fosso», ma anche questa strada ha l’aspetto dabbene, mansueto di una piccola povera strada borghese.

L’ambizione borghese sembra un po’ il destino di questa città. Uno strano destino, quasi inverosimile. Durante la guerra la piazzaforte navale di Augusta era la più potente del Mediterraneo, ospitava sommergibili, mezzi da sbarco, Mas, siluranti, idrovolanti, ed era protetta da un treno armato di sedici cannoni, da un nugolo di batterie contraeree e da quattro batterie antinave da 381, cannoni giganteschi di venti metri, intanati in invulnerabili caverne di roccia.

Potevano scagliare mezza tonnellata di ferro e tritolo a trenta chilometri di distanza. Erano l’orgoglio della Marina, con una sola bordata avrebbero potuto far saltare in aria qualsiasi corazzata dell’Home fleet. Invece non spararono un colpo. Quando avvenne lo sbarco alleato sulle coste siciliane, i carri armati inglesi sbucarono dalle alture di Siracusa e l’ammiraglio comandante della piazzaforte dette l’ordine del «si salvi chi può»; si mise una giacca da yachtman, un elegante borsalino in testa e si imbarcò a Brucoli su un bagarozzo da pescatori.

La sola cosa di cui gli americani ebbero veramente paura per qualche ora fu quell’hangar da dirigibili, dal quale pareva da un istante all’altro dovesse sbucare chi sa quale apocalittico cannone; ma gli inglesi con un sorriso carogna spiegarono cos’era. «E perché non l’avete distrutto con le bombe?», chiesero i generali americani. «Perchè ci serviva da punto di riferimento per i bombardamenti: un chilometro a sud l’idroscalo, due chilometri la base dei sommergibili, mezzo chilometro ad est il pontile dei Mas».

Ora Augusta ha il più grande porto italiano dopo Genova: nel 1966 ha avuto un movimento di trenta milioni di tonnellate di merce. Ma il suo porto reale, quello che le appartiene veramente, è solo un minuscolo braccio di mare di duecento metri nel quale si ammucchiano alla rinfusa una ventina di vecchi rimorchiatori, altrettanti pescherecci di piccola mole, le motobarche dei vigili del fuoco, i motoscafi della capitaneria, le lance dei piloti, le vedette della guardia di finanza ed una ventina di piccoli pescherecci. I fondali sono così bassi che non vi potrebbe attraccare nemmeno un vaporetto da mille tonnellate.

Qui non è mai sbarcato un passeggero civile. Il vero porto è quella immensa rada, quel mare aperto che si stende dall’isola di Augusta fino ai primi promontori di Siracusa. I soli attracchi sono quelli privati delle industrie, i giganteschi moli di due chilometri, lungo i quali notte e giorno giganteschi oleodotti e nastri semoventi trasportano verso il largo, verso le stive delle navi, petrolio, fosfati, olio minerale, milioni di sacchi di concime chimico.

Le petroliere stanno schierate alla fonda, in bell’ordine, come una flotta; ogni tanto una si stacca dal gruppo, si accosta pesantemente e comincia ad inghiottire i prodotti; si abbassa sempre più la linea d’immersione finché l’acqua non sfiora quasi la tolda e infine riparte adagio, cedendo il posto ad un’altra nave.

Nel frattempo un’altra è arrivata e si è messa compostamente in fila. In questo porto, che rappresenta l’approdo della più grande zona industriale del Mezzogiorno ed è in effetti un autentico motore di ricchezza, lo stato non ha speso un quattrino, nemmeno per una banchina di pietra, nemmeno per raschiare i fondali, nemmeno per la diga foranea che fu costruita alla vigilia della guerra e che ora sta cadendo a brandelli.

Ogni anno, per imposte, dogane, tasse, balzelli, Ige sulle merci che arrivano o partono, per i macchinari, le attrezzature, gli impianti, i ricambi tecnici che vengono continuamente sbarcati, lo stato incassa miliardi di ottime lire. Ma un quattrino finora non lo ha speso.

Tutto quello che esiste, i moli, gli attracchi, le isole di ferro in mezzo al mare, è stato pagato con denaro privato. Proprio qui, dove la condizione umana del siciliano ha raggiunto un livello continentale, nell’unica zona dell’isola che si è definitivamente strappata alla miseria, la negligenza, anzi la strafottenza dello Stato ha una consistenza quasi beffarda.

Per questa rada, alle cui spalle sono concentrati stabilimenti industriali per un investimento di almeno cinquecento miliardi di lire, la regione a sua volta ha stanziato recentemente trecento milioni di lire. Ci si possono costruire a scelta cento metri di diga foranea, oppure mille metri di binario, o un nuovo e più confortevole edificio per le dogane. Trecento milioni di lire per un porto al quale ogni anno attraccano seimila navi.

Quello che vale la rada di Augusta, questo porto fantasma che non è segnato fisicamente su alcuna carta nautica delle capitanerie, possono spiegarlo soprattutto le cifre. Nell’ultimo anno lo scalo marittimo di Genova, il terzo d’Europa ed uno dei più grandi del mondo, ha avuto un movimento di merci di trenta milioni di tonnellate. Questa cifra dopo appena dodici mesi è stata superata dal porto di Augusta che complessivamente ha imbarcato merce per trentuno milioni di tonnellate. Viene quindi lo scalo di Venezia porto Marghera con quindici milioni di tonnellate.

Napoli con undici milioni, e lontanissimi tutti gli altri. Degli altri porti siciliani seguono Palermo con un milione e duecentomila tonnellate di merce, Porto Empedocle con un milione e centomila, Catania con poco più di ottocentomila tonnellate, Messina con 220 mila, Siracusa con 120 mila.

Ma ad Augusta la diga che protegge le navi alla fonda dalle mareggiate è già a pezzi e si sta sgretolando ogni giorno di più: le banchine del porto civile sono quelle di cinquant’anni or sono, quando la Regia Marina fece costruire l’hangar del dirigibile per dominare dall’alto il Mediterraneo; le piccole navi di servizio, i rimorchiatori, i motoscafi, i battelli antincendi sono stipati in un curioso imbuto, un’insenatura schiacciata tra l’isola e la terraferma, non più larga di una piazza di paese, dove i natanti si pigiano caoticamente. Se la melma dei fondali dovesse salire di poco, anche i battelli dei pompieri vi resterebbero incagliati.

Le sole attrezzature che stranamente funzionano (stranamente per un’Italia mite e remissiva ad oltranza, che consente alle vedette tunisine di prendere a cannonate gli inermi pescatori di Mazara del Vallo) sono i moli militari dove si allineano le motovedette. Uno spettacolo che conforta lo spirito patrio del cittadino.

Si ha la curiosa impressione che la Repubblica italiana sia più disposta a vincere una nuova eventuale guerra, che non ad aiutare i siciliani a vincere la loro vecchia e sicura miseria

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