Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà ampi stralci del “Processo alla Sicilia”, il libro che raccoglie trentacinque inchieste di Pippo Fava, direttore de “I Siciliani”, ucciso con cinque colpi di pistola il 5 gennaio del 1984 a Catania


Caltagirone rischia di rassomigliare alla sua banda musicale, la quale è composta di quaranta elementi tutti di buona scuola, ma quasi tutti anziani. Una volta questa banda musicale era una delle più importanti di tutta la Sicilia orientale; veniva chiamata in molte feste patronali, aveva divise impeccabili, maestri famosi e quando sfilava era uno spettacolo.

Ora sono rimasti solo quaranta elementi e sono invecchiati, gli altri venti sono morti, e al posto loro non è venuto alcun altro musicante.

Nessuno studia più musica a Caltagirone; sui sassofoni, corni, cornette ci sono due dita di polvere. Attualmente tutto il corpo musicale costa al Comune la bellezza di sessanta milioni l’anno, poiché tutti i quaranta componenti sono impiegati comunali.

A mano a mano che il tempo passa la banda si assottiglia: accade che qualcuno dei musicanti, soprattutto coloro i quali suonano gli strumenti più pesanti (un trombone pesa dieci chili di ottone), con l’avanzare dell’età non ce la faccia più a reggere lo strumento e deve andarsene in pensione.

La banda di Caltagirone diventa così sempre meno importante, sempre più sparuta; un giorno o l’altro, come già è accaduto a Catania, gli ultimi musicanti, gli epigoni, saranno trasformati in uscieri, segretari o bidelli.

La città di Caltagirone rassomiglia alla sua banda musicale. Si assottiglia! Sembra una città stranamente ferma nel tempo, piena di vecchi che sono troppo vecchi per poter cambiare mestiere o andarsene altrove. Dodicimila uomini, i più giovani, sono emigrati negli ultimi anni all’estero, oppure nelle regioni del Nord Italia. E altri giovani diventano uomini già con la fretta di andarsene; ci sono insegnanti diplomati dalla celebre scuola d’arte calatina che se ne sono andati a fare ceramiche in Norvegia o nel Belgio.

A Caltagirone non c’è un grande bar, un campo di tennis, un dancing; il quaranta per cento delle campagne sono deserte; ci sono due sole iniziative industriali, la ISVA che costruisce serrande ed una fabbrica di laterizi. Solo il commercio è ancora vivace e attivo, con una miriade di piccoli negozi ai quali affluiscono i clienti da Grammichele, S. Michele di Ganzaria, Mineo. S. Cono, S. Pietro, Granieri; ma quanto prima sarà aperta al traffico la superstrada Catania Gela che in poco più di mezz’ora collegherà quasi tutti i piccoli centri del Calatino con il capoluogo.

Se i negozianti calatini non saranno capaci di offrire merce migliore ed a prezzi competitivi, i clienti si squaglieranno. C’è un’altra sensazione che si coglie a Caltagirone: che cioè la città accetti questo destino, che sia rassegnata alla decadenza, paga di tutte le cose che è riuscita a fare negli ultimi secoli e convinta che sia ormai inutile lottare. Lottare contro chi, poi? Per far cosa ed a favore di chi? I vecchi sono stanchi e delusi, i giovani se ne sono andati a casa del diavolo... Nessuno dice apertamente questo a Caltagirone, ma molti probabilmente lo pensano, sono oscuramente convinti della inutilità della lotta.

Il destino moderno delle città rassomiglia in realtà a quello degli individui: nella società moderna sopravvive o avanza colui il quale sa fare solo una cosa determinata, e questa cosa riesce però a farla esattamente come gli altri vogliono.

Ora bisogna che anche una città valga qualcosa di preciso e di utile in un agglomerato sociale, altrimenti decade: che rappresenti ad esempio una concentrazione di interessi industriali, oppure che abbia bellezze arcane per attirare i turisti e vivere con il loro denaro, oppure che sia geograficamente il luogo di incontro delle richieste commerciali di un’intera popolazione, oppure abbia minerali preziosi nelle viscere della terra, o sia posta sul mare e quel mare sia ricco di pesci.

Caltagirone non ha niente di tutte queste cose; aveva solo l’agricoltura attorno alla quale aveva costruito la sua civiltà, il suo tessuto sociale, i commerci, la fortuna delle famiglie più potenti; e attorno a queste famiglie aveva lentamente edificato le grandi tradizioni culturali, l’influenza politica, le grandi chiese, le grandi strade, i palazzi, i circoli, i titoli nobiliari, le scuole, i negozi, le feste.

I paesi che stavano attorno alla montagna dipendevano da Caltagirone per tutte le loro necessità vitali, la gente del grande feudo veniva a Caltagirone per conseguire un titolo di studio, per cercare un medico più bravo, per comperare tessuti o mobili.

Poi l’agricoltura cominciò lentamente a crollare. In tutto il territorio di Caltagirone le colture sono cerealicole, con rari boschi di mandorli, ulivi, castagni. Fin quando il grande proprietario poteva far lavorare la terra pagando salari miserabili, l’utile del raccolto superava la spesa; non era che l’agricoltura allora fosse ricca, ma erano ricche quelle centinaia di grandi famiglie che possedevano la terra, ed attorno alla loro potenza tutta la città appariva potente.

Il motivo del fallimento della riforma agraria in Sicilia è questo: per cento anni si era sentito dire che i ricchi erano soprattutto coloro che possedevano la terra, e poveri coloro che non la possedevano.

La classe politica che usciva dalla guerra ritenne che spartire la terra sarebbe stato come spartire equamente la ricchezza: nessuno di coloro che bruciarono decine, forse centinaia di miliardi in questa impresa pazzesca si era reso conto che una salma di terra coltivata a cereali può dare da vivere solo a una piccola, miserabile famiglia che si contenti del pane, della pasta, dell’olio, di un vestito, e di un paio di scarpe l’anno, e dieci sigarette al giorno. Cinquanta, trenta anni or sono il novanta per cento dei contadini desiderava una esistenza così, al riparo dalla fame.

Ora non più, ed è giusto! Ora il contadino invece di languire su una salma di terra se ne va a Duisburg, Amburgo, Losanna. Perché l’agricoltura calatina fosse potuta sopravvivere, sarebbe stata necessaria una profonda opera di rinnovamento, cioè anzitutto l’irrigazione, poi la trasformazione in pascoli, l’intensificazione degli allevamenti, il rimboschimento, lo sfruttamento industriale delle carni e dei prodotti caseari. Favole. Il vecchio siciliano concepisce l’agricoltura come in una oleografia: i campi gialli di grano, la zappa, la falce, gli animali che tirano l’aratro.

Fatalmente cominciò la decadenza. I proprietari non potevano più pagare gli alti salari che il contadino chiedeva, ed offrivano in cambio la terra a mezzadria, che il contadino invece non voleva. Gli uomini cominciarono ad abbandonare la terra, rimasero solo gli anziani ed i rassegnati, tutta l’impalcatura agricola che aveva orgogliosamente sostenuto la storia di Caltagirone crollò di colpo; e con essa sprofondò la potenza delle antiche famiglie.

Tutto l’apparato che essi si erano costituiti attorno divenne statico, immobile. Questa è appunto la sensazione strana: come di un grande organismo in espansione nel quale si sia interrotta improvvisamente la forza vitale. Ed è una sensazione che altre città siciliane suscitano: ma qui a Caltagirone ha una evidenza quasi dolente, una malinconia quasi visiva, poiché questa è stata una città veramente illustre, ed era piena, era prorompente di forza, di uomini aggressivi.

Di questo ora avrebbe bisogno Caltagirone: di uomini egualmente aggressivi ed audaci, che avessero il coraggio di affrontare la realtà per trasformarla, di rischiare insomma.

Tutta la vallata da Caltagirone a Gela può diventare un’immensa prateria per allevamenti zootecnici: c’è l’acqua, e laggiù la pianura accogliente, ed i prezzi della terra non potranno mai più essere così bassi.

Del resto questa città è fra le pochissime del Sud ad avere avuto straordinarie attenzioni dagli ambienti politici romani: due miliardi per l’ospedale circoscrizionale, un nuovo acquedotto per 215 litri d’acqua al secondo, un miliardo e mezzo per la nuova stazione ferroviaria, la diga dell’Ogliastro per irrigare le campagne, ed infine il riconoscimento di nucleo industriale.

I mezzi per ricostruire un centro di potenza economica esistono, e c’è anche il denaro, poiché la città pullula di piccoli risparmiatori. Ma è necessario anche il coraggio. La storia di Caltagirone è in realtà una storia di uomini che aggredivano continuamente il mondo e lo consideravano una cosa da conquistare in ogni senso: con la forza fisica, il talento, le incredibili capacità di lavoro, la vocazione agli affari politici. Già la potenza di questa città fu consacrata così.

Correva all’incirca l’anno 1140 quando Ruggero il normanno, dopo una serie di tempestose ed alterne battaglie, riuscì a conquistare l’intero territorio dell’isola, scacciandone i saraceni che lo avevano dominato fin’allora. Qua e là rimasero nuclei di resistenza, asserragliati in qualche vecchia roccaforte dell’interno.

Non è che quei saraceni fossero degli eroi, solo che, essendo tagliati fuori dal mare, avevano la via della ritirata definitivamente preclusa. Isolati nei castelli non avevano nemmeno di che sfamarsi e allora operavano delle scorrerie nei villaggi e nei casolari della valle, razziando grano, olio, fieno e naturalmente anche qualche solida contadina.

Una di queste ultime isole di resistenza era esattamente nel feudo di Judica, a pochi chilometri da Caltagirone: qualche migliaio di saraceni, con piccoli cavalli veloci, le barbe nere, i turbanti, le scimitarre.

Praticamente erano dei morti di fame, erano predoni stracciati, ammalati e ridotti alla disperazione. Metà dei cavalli erano stati costretti a mangiarseli. Erano però buoni combattenti e feroci quanto bastava per consigliare al conte Ruggero di non rischiare una ulteriore battaglia.

Come tutti i conquistatori, (poi lo hanno fatto gli inglesi e gli americani appena qualche anno fa) si servì degli indigeni che aveva appena sottomesso. Emise un bando con il quale prometteva tutto il possesso dell’ampio territorio di Judica, Campopietro e altri feudi viciniori, a quella città siciliana che, con mezzi propri, avesse distrutto quel nido di predoni.

I calatini furono i più lesti a raccogliere l’appello. Il 16 agosto 1143 l’esercito municipale di Caltagirone, con cavalli, fanti, arcieri e portatori di picche, avanzò verso le vallate di Judica dove riuscì ad agganciare le schiere dei saraceni.

Fu una bella battaglia che durò tutta la giornata, con innumerevoli morti ed epiche gesta dall’una e dall’altra parte, una confusione di sciabolate, decapitazioni, nugoli di sassi, cavalli che trascinavano cadaveri. La stessa sera, malconcio ma vittorioso, l’esercito dei caltagironesi fece ritorno in paese con i corpi dei morti legati come sacchi sulle cavalcature e trascinandosi appresso gli ultimi saraceni superstiti.

La storia di questa battaglia è narrata in un gigantesco mosaico di ceramica che copre una parete della galleria «Don Sturzo». Vi si scorge un’immensa vallata gremita di guerriglieri biondi e saraceni che agonizzano pietosamente sull’erba. In un angolo, in alto, campeggia un re maestoso dinnanzi al quale si inginocchia un capitano ancora coperto di polvere e sudore. Nel pugno stringe vittoriosamente la pergamena che fa Caltagirone padrona di tutti i feudi saraceni.

La galleria di Caltagirone è una costruzione strana: ha le proporzioni maestose di una reggia e l’aria gelida, un po’ sinistra di una grande tomba patrizia. È immensa, è vuota: i passi di coloro che vi camminano dentro risuonano, da una parete all’altra, come nei film da brivido, e le voci si sentono da ogni dove, ma lontanissime, non si capisce da quale direzione vengano.

Da una parte c’è una tribuna con quel grande pannello romantico, e dall’altra un palco con tutti gli stemmi delle casate gentilizie. Questa galleria dovrebbe essere il cuore della città, un luogo di convegno, di calda allegria, di affari e conversazioni, ed è invece sempre deserta. Dal soffitto altissimo e bianco pende solo una grande «ninfa» di ferro e cristallo.

Dalle due pareti guardano quattordici ritratti in maiolica di calatini famosi: scienziati, guerrieri, tribuni, matematici, condottieri, medici, i quattordici cittadini più illustri di quella Caltagirone che si guardava sempre avidamente attorno per vedere cos’altro c’era da conquistare in ricchezza, in gloria, potenza, sapere; Caltagirone così avida, così intelligente, combattiva, illustre, rapace, da impaurire persino i catanesi. I tempi di Giorgio Arcoleo, Agesilao Greco, Luigi Sturzo, gli uomini che combattevano dovunque animati da una insaziabile curiosità e sete di conquista!

Ora il ciclo di queste generazioni sembra concluso; l’ultimo, il più tenace e vittorioso degli epigoni è Mario Scelba, il più ingenuo e patetico in tutte le sue illusioni Silvio Milazzo che invecchia placidamente nel suo feudo di contrada Noce. I tempi sono conclusi.

La città è immobile: sono rimasti i vecchi che non hanno più la forza per osare del nuovo, oppure i fortunati che sono contenti del loro stato e temono che qualunque cosa anche un’autostrada possa cambiarlo. I giovani, gli scontenti, gli inquieti, i poveri, i più disposti all’avventura, i più ansiosi di una nuova condizione sociale, se ne vanno: i contadini, i laureati, i maestri della ceramica, gli artigiani, gli artisti.

In fondo all’anima di questa popolazione la forza vitale è forse rimasta intatta, e la delusione, la curiosità bruciano; ma qui a Caltagirone non c’è più niente che possa trattenere e radunare questa forza ed essa così si sfoga e si disperde per il mondo.

I vecchi agricoltori non hanno avuto il coraggio (forse non avevano nemmeno l’energia) per tentare una trasformazione delle colture: i più agiati continuano affannosamente a seminare grano e legumi in attesa di poter vendere le loro campagne ed acquistare qualche appartamento; i più poveri hanno addirittura rinunciato alla lotta ed hanno abbandonato la terra. Non è stata realizzata alcuna nuova iniziativa industriale con capitale indigeno.

I maestri della ceramica continuano gelosamente a lavorare ognuno per conto proprio. Dietro il dramma dell’anima meridionale c’è sempre questo accanimento alla solitudine, il sospetto cupo e intransigente verso il vicino di casa. Nessuno vuole aiutare o essere aiutato.

La scuola di ceramica di Caltagirone è una delle più antiche del mondo; ha sempre avuto maestri di eccezionale talento e di straordinaria fantasia. Per tutto un secolo essa rappresentò addirittura un fenomeno economico che consentiva lavoro a centinaia, forse a migliaia di modellatori, insegnanti, pittori, disegnatori, i quali fabbricavano in ceramica tutti gli accessori sanitari ed igienici dell’edilizia.

Poi sopravvenne l’industria, la fabbricazione in serie: una macchina riuscì a produrre tanti lavabi, boccali, bidè, mattonelle, quanto duecento operai ceramisti in un giorno.

Com’era accaduto già all’agricoltura tradizionale, sconvolta dall’ introduzione della macchina nelle campagne e dalla necessità di un rinnovamento essenziale, anche l’arte della ceramica venne travolta; divenne artigianato, una rara fantasia del singolo artista che si ostinava a lavorare sempre con il tornio a mano ed il forno a mattoni, una cura sempre più umile, sempre più gelosa ed esclusiva, di poche famiglie che si tramandavano segreti di impasto e cottura, e fabbricavano solo statuine di moschettieri, don Chisciotte, preti allampanati, e ninnoli, caraffe, portacenere.

Riunite insieme le sue energie, questa gloriosa scuola forse riuscirebbe ancora a creare una piccola industria di rango europeo, come accade a Murano per i cristalli, e in Brianza per i mobili.

Ma non ci riusciranno mai. Sono così profondamente divisi da rinunciare perfino ad utilizzare l’argilla delle montagne di Caltagirone.

È forse l’argilla migliore, la più pura e morbida che sia possibile scavare in Italia; e del resto, se è vero che già nel sesto secolo qui c’erano maestri vasai, vuol dire che qui e non altrove c’era la creta migliore. Ma per raffinare l’argilla, prima della lavorazione, c’è bisogno di alcune grandi macchine e le macchine costano milioni. Per comprarle bisognerebbe fare una società.

Preferiscono invece acquistare l’argilla in Toscana, farla venire da casa del diavolo e pagarla il doppio. È una storia piccola e senza importanza, ma è anche un simbolo dolente. In fondo al dramma del Sud c’è questa nostra solitudine umana: ognuno di noi è debole poiché è solo; ed è solo poiché rifiuta di avere fiducia o speranza negli altri, poiché è orgogliosamente convinto di poterne fare a meno.

© Riproduzione riservata