Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni e curato insieme a Francesco Trotta. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie pubblicherà alcuni stralci del libro “C'era una volta il pool antimafia” edito da Zolfo Editor


Ed è proprio a questo episodio che ha fatto riferimento Giovanni Falcone nel corso della sua audizione del 15 ottobre 1991 davanti la Commissione Referente del Csm. In occasione del blitz di San Michele del 1984, dei circa 360 imputati soltanto uno venne tratto in arresto per errore di persona dovuto alla consuetudine, all’epoca da noi non presa in considerazione, secondo cui il soprannome, l’“inciuria” nel dialetto siciliano, si eredita di padre in figlio, per cui il mafioso indicato dal boss “pentito” Salvatore “Totuccio” Contorno come “Peppino Garibaldi” non era la persona che credevamo ma il figlio, che aveva ereditato l’“inciuria” dal genitore. Naturalmente, scoperto l’arcano, provvedemmo immediatamente a scarcerare il mal capitato.

La logica emergenziale non ci è mai appartenuta, come dicevo in precedenza, anzi cercavamo i riscontri agli elementi indiziari acquisiti con cura certosina, con attenzione, fino allo sfinimento, per non commettere gli errori del passato, quando rinvii a giudizio non basati su prove certe, granitiche si erano conclusi con sentenze di assoluzione per insufficienza di prove, vero fiore all’occhiello per ogni mafioso. Falcone, come ha raccontato anche Peppino Di Lello, era attento a stralciare posizioni che richiedevano ulteriori riscontri.

È stato, tra tanti altri, il caso di Bruno Contrada, il poliziotto più famoso di Palermo, sul cui conto aveva reso dichiarazioni Tommaso Buscetta senza però scendere in molti particolari circa la sua asserita “vicinanza” a Cosa nostra. Il capo della Criminalpol, Gianni De Gennaro, preoccupato, sollecitò ulteriori chiarimenti. Ma Buscetta, interrogato da Falcone, ritenne di non dovere aggiungere altro a quel poco che aveva riferito sul conto di Contrada.

Pertanto non ritenemmo di adottare alcun provvedimento. Soltanto dopo le stragi, nel dicembre del 1992, all’esito di ulteriori indagini, venne spiccato mandato di cattura nei confronti del funzionario in ordine al reato di concorso esterno in associazione mafiosa.

Nel maggio 2007 è passata in giudicato la sentenza che lo ha condannato a dieci anni di reclusione, quasi interamente scontata tra carcere e domiciliari. La lunga vicenda giudiziaria di Contrada si è conclusa di recente con una sentenza della Prima Sezione della Corte di Cassazione che ha “annullato” e dichiarato “ineseguibile e improduttiva di effetti penali” la sentenza di condanna a dieci anni in esecuzione di un giudicato della Cedu, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha dichiarato quella sentenza “ineseguibile” perché, all’epoca dei fatti (1979-1988), il contestato reato di concorso esterno in associazione mafiosa non “era sufficientemente chiaro e il ricorrente non poteva conoscere nello specifico la pena in cui incorreva per la responsabilità penale che discendeva dagli atti compiuti”.

Va rilevato ancora che le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno escluso che il verdetto della Cedu si applichi anche agli altri condannati per concorso esterno per fatti commessi prima dell’ottobre 1994, quando la tipologia del reato è stata codificata, perché “quel verdetto non è una sentenza pilota e non è espressione di una consolidata giurisprudenza europea”.

Tornando a noi, sapevamo di versare in una situazione di emergenza, ma questo non significava che dovessimo andare di fretta e mandare qualcuno in carcere senza prove.

Si procedeva veloci, ma attenti, cercando le prove punto per punto. Su tutto fummo rigorosi. Buscetta parlò per quattro mesi in segreto. Falcone verbalizzava a mano le sue dichiarazioni, poi passava i verbali a Caponnetto che ci teneva informati. Nulla mai trapelò. La mafia scoprì che Buscetta stava collaborando perché, dopo l’arresto in Brasile, si rese conto che era sparito nel nulla: non era in carcere, in Italia o all’estero, non era in un ospedale. Vuoi vedere che don Masino se la sta cantando?

Questo era Giovanni, una persona aperta, franca, leale, che dedicava tutto se stesso al lavoro con grande impegno, professionalità e spirito di servizio.

Paolo era molto diverso, era estroverso, un po’ come me. Aveva un grande carisma, un’incrollabile fede cristiana, era amante della vita e incorporava una grande sicilianità, intesa come sentita espressione della sua appartenenza alla terra che gli aveva dato i natali, per cui si esprimeva spesso e volentieri in dialetto. E per questo lo prendevamo tutti in giro.

Solo lui sa cosa ha provato in quei terribili 57 giorni che separarono la morte di Giovanni dalla sua. Una corsa contro il tempo perché sapeva che il suo momento stava arrivando e che il tritolo per lui era già giunto a Palermo.

Era dotato di una grandissima umanità. I collaboratori di giustizia li conquistava grazie al suo carattere: la facilità nello stabilire relazioni e di entrare in sintonia con gli altri gli permisero di ottenere risultati eccezionali con alcuni “uomini d’onore”, che si fidavano solo di lui.

Al contrario, Falcone “conquistava” i criminali con un atteggiamento più freddo, serio, rispettoso. Sono celebri gli sguardi e i silenzi degli interrogatori di Giovanni, che lasciavano perplesso il pubblico ministero presente all’atto istruttorio. Oppure la sua capacità di partire da lontano per disegnare un quadro complessivo dei fatti.

“L’uomo d’onore” pensava di fornire chiacchiere senza costrutto e lui invece accumulava preziose informazioni. Era sempre Falcone che guidava il gioco, ma i suoi interlocutori non se ne accorgevano. A volte aveva invece bisogno di poche informazioni per completare il suo puzzle. Era capace anche di andare negli Stati Uniti per porre soltanto qualche domanda a un collaboratore. I colleghi d’oltreoceano lo guardavano stupiti, ma lui tornava soddisfatto, col suo solito enigmatico sorriso.

Giovanni e Paolo erano due felici espressioni della Sicilia. Uno era laico, l’altro molto cattolico, uno era orientato a sinistra e l’altro a destra, uno senza figli perché non voleva fare nascere orfani, così soleva dire, e l’altro di figli ne aveva tre, uno che ti guardava col sorriso appena accennato e l’altro dalla risata franca, aperta. Erano straordinariamente complementari.

© Riproduzione riservata