La disuguaglianza in Italia è più alta rispetto alla maggior parte dei paesi occidentali. I motivi sono vari, da possibili errori di misurazione dovuti all’alto livello di evasione fiscale, fino alla sostanziale immobilità dell’economia italiana, che, non crescendo, rende più complicata la redistribuzione delle risorse e riduce le possibilità per i più poveri di risalire la scala sociale.

Il nostro Paese, un tempo considerato uno dei meno diseguali tra quelli avanzati, ha peggiorato la propria posizione negli ultimi anni. Lo si vede osservando l’aumento della quota di reddito e ricchezza in mano al 10 per cento più ricco della popolazione. Nel 1995, solo il 33 per cento del reddito finiva nelle mani del 10 per cento più abbiente della popolazione, che deteneva anche il 45 per cento del totale della ricchezza nazionale.

Oggi, la situazione è cambiata molto. Il 10 per cento più benestante ha in mano il 37 per cento del reddito e il 56 per cento della ricchezza. La situazione è opposta per il 50 per cento più povero, che ha ridotto sia la quota di reddito detenuta (da 17 a 16 per cento), sia quella di ricchezza (da 10 a 2,5 per cento).

Una notizia in parte confortante è la sostanziale stabilità della disuguaglianza negli ultimi anni per cui sono disponibili i dati. Per quanto riguarda la ricchezza, la quota in mano al 10 per cento più abbiente è rimasta all’incirca al livello del 2010, mentre per il reddito siamo ai massimi storici, che però sono rimasti stabili negli ultimi anni. Una delle ragioni resta probabilmente la sostanziale immobilità dell’economia italiana, che, non cambiando, non cambia nemmeno i rapporti di forza nelle dinamiche di reddito e ricchezza.

Cosa aspettarci dall’inflazione

La situazione potrebbe però presto cambiare. O meglio, è possibile che sia già cambiata, ma non abbiamo ancora dati per verificarlo. L’economia ferma o quasi degli ultimi anni non c’è più: dopo il crollo dovuto alla pandemia, il Pil italiano è tornato a crescere , prima con un ovvio rimbalzo dopo la caduta nel 2021, poi con un’ulteriore crescita del 3,7 per cento nel 2022. Anche quest’anno, seppur con dei rallentamenti, il Pil dovrebbe aumentare a livelli superiori rispetto al pre-pandemia. I motivi sono molti e sicuramente c’è di mezzo anche il Pnrr, che sta fornendo una delle più grandi quantità di risorse dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.

C’è però un problema: la crescita più marcata dell’economia e, soprattutto, la situazione internazionale stanno facendo crescere i prezzi. L’inflazione ha effetti distorsivi sull’economia e rischia di avere pesanti conseguenze sulla distribuzione di reddito e ricchezza. I motivi sono vari.

Innanzitutto, l’aumento dei prezzi ha un impatto diverso sui lavoratori a seconda della loro situazione. Da una parte, i dipendenti tendono a subirla di più, perché non possono aggiustare immediatamente il proprio stipendio al costo della vita e devono sperare in un accordo con il datore di lavoro o sul rinnovo del contratto collettivo nazionale, che di solito risultano essere troppo poco, troppo tardi. I lavoratori autonomi, al contrario, possono aggiustare immediatamente le proprie tariffe e adeguare il proprio salario all’inflazione. In alcuni casi possono addirittura guadagnarci, ricaricando il prezzo di più rispetto all’inflazione.

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Il ragionamento è generale, ma ci sono delle eccezioni. Ci sono per esempio dipendenti con grande potere contrattuale che possono ricevere senza troppa fatica un aumento, come per esempio i manager. Molti autonomi, al contrario, hanno pochissime possibilità di aggiustare le tariffe, magari perché assomigliano più a dipendenti di fatto che a lavoratori indipendenti.

Basti pensare alle moltissime partite Iva assunte con ruoli da consulenti da agenzie e studi professionali. A differenza di un professionista, da un elettricista a un notaio, questi lavoratori non hanno molti clienti, anzi, spesso ne hanno solo uno, e quindi, da dipendenti di fatto, non hanno grande margine.

Da questa distinzione tra dipendenti (e pensionati) e autonomi si capisce perché l’inflazione rischia di aumentare le disuguaglianze: le persone con meno potere contrattuale hanno maggiore probabilità di trovarsi nelle fasce più povere della popolazione, mentre i lavoratori autonomi e i dipendenti di alto livello sono più spesso tra coloro che stanno già meglio rispetto al resto della popolazione. Mentre questi ultimi non subiscono o comunque limitano l’impatto dell’inflazione, i dipendenti vedono il proprio potere di acquisto erodersi mese dopo mese.

In base al reddito

C’è poi un altro fattore da tenere in conto: l’inflazione di solito interessa i beni e i servizi che vengono consumati di più dalle persone più povere. Non necessariamente in termini assoluti, ma in termini relativi. Per esempio, se una persona guadagna 1.000 euro al mese e ne spende 300 per le bollette, un eventuale aumento del prezzo dell’energia avrà un peso su circa un terzo del suo reddito. Una persona più benestante, che guadagna 2.000 euro e ne spende 400 in bollette, subirà di più l’inflazione in termini assoluti, ma il peso sul suo bilancio familiare dell’energia sarà pari solo a un quinto del totale.

Le persone più ricche consumano una quantità relativamente maggiore di beni e servizi “di lusso”, dalle vacanze, alle auto, fino agli appuntamenti da medici e fisioterapisti. Per i più poveri, invece, hanno un peso più alto beni come gli alimenti e l’energia. L’inflazione è una misura relativa: indica infatti di quanto sono cambiati i prezzi dando per scontato che una famiglia consumi una certa quantità di beni. Il “paniere” di beni prende in considerazione l’italiano medio, ma Istat ipotizza anche i panieri delle famiglie in base al loro reddito.

Più la famiglia è povera, maggiore è il peso dei beni di prima necessità; più è ricca, maggiore sarà il peso di servizi e beni di lusso. Se si guarda ai dati 2021, quando l’aumento dell’inflazione ha iniziato a essere rilevante, già si  vedeva la differenza tra ricchi e poveri. Secondo Istat, l’aumento dei prezzi era stato dell’1,6 per cento per il 20 per cento più ricco e del 2,4 per cento per il 20 per cento delle famiglie più povere.

L’aumento dell’inflazione nel 2022 è stato trainato dal prezzo dell’energia, con una crescita superiore al 60 per cento, e dei beni alimentari, cresciuti di oltre il 10 per cento. Proprio quelle categorie di beni che sono maggiormente consumate dai più poveri.

L’intensità di questo aumento del divario tra ricchi e poveri sarà più chiara una volta che Istat pubblicherà i dati ufficiali, ma la possibilità che questa crisi inflattiva faccia aumentare le disuguaglianze è decisamente concreta.

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