Istat ha pubblicato il report annuale sulle condizioni di vita e sul reddito delle famiglie, con dati che arrivano fino al 2021. La fotografia offerta dal rapporto è sicuramente interessante, anche se il fatto che i dati facciano riferimento a un anno e mezzo fa lascia pensare che la situazione attuale possa essere cambiata. Ma cosa dice il rapporto?

Innanzitutto, il reddito medio delle famiglie, pari a 33.798 euro, è cresciuto nell’anno successivo alla pandemia, con un aumento del 3 per cento in termini nominali e dell’1 per cento in termini reali (ossia al netto dell’inflazione). Considerando il crollo economico del 2020, sembrerebbe una cifra piuttosto bassa. In realtà, il reddito familiare aveva subito un calo molto inferiore rispetto al Pil (-0,9 e -0,8 per cento in termini nominali e reali), per cui, allo stesso modo, il rimbalzo ha avuto una dimensione inferiore nel 2021.

Il reddito medio, però, non è una misura particolarmente attendibile, perché tende a sovrastimare il benessere economico della famiglia tipo. Le persone che guadagnano più della media, infatti, tendono spesso a guadagnare una cifra molto più alta, spostando il valore medio verso l’alto. Così, ci si immagina, che almeno metà della popolazione abbia un reddito superiore a 30mila euro. In realtà non è così. La misura da tenere in considerazioni in questo caso è la mediana, che rappresenta la famiglia al centro della distribuzione: metà della popolazione guadagna di più, l’altra metà guadagna meno.

L’italiano medio come viene immaginato in termini giornalistici o politici, insomma. Se si guarda al reddito mediano, si nota che il benessere effettivo della “classe media” è più basso: nel 2021, il 50 per cento della popolazione guadagnava meno di 26.979 euro (il valore del reddito mediano, appunto). Questo dato non vi convince? È normale: com’è possibile che il reddito di più del 50 per cento delle famiglie sia così basso se in giro tutti hanno uno smartphone, vanno in vacanza e hanno l’auto nuova?

Da una parte è una questione di percezione. Anche le classi più privilegiate tendono a identificarsi nella classe media. Se si chiede a un operaio cos’è classe media, dirà che è formata da operai, piccoli impiegati e artigiani; se lo si chiede a un avvocato, dirà probabilmente che è formata dai professionisti.

C’è poi un altro fattore importante da tenere in gioco: l’evasione. Le stime di Istat si basano in buona parte sulle dichiarazioni dei redditi delle famiglie, ma se quasi il 70 per cento dell’Irpef che andrebbe pagata da autonomi e piccole imprese viene evasa, è normale che il dato risulti sottostimato.

Possiamo comunque supporre che il reddito della famiglia italiana tipo sia compreso tra 27mila e 33mila euro, decisamente basso per un’economia avanzata come quella italiana: se si guarda ai dati sui singoli individui e non sulle famiglie, il reddito mediano francese e quello tedesco sono più alti del 12 e del 23 per cento rispetto a quello italiano.

Gli altri paesi avanzati

I redditi medio e mediano forniscono alcune informazioni importanti, ma ci danno indicazioni soprattutto sul benessere assoluto delle famiglie. È importante anche capire qual è il divario relativo tra i cittadini, cioè la disuguaglianza. Se si guarda ai dati sul 2021, il 20 per cento della popolazione con un reddito più alto ha incassato 5,6 volte tanto rispetto al 20 per cento con un reddito più basso. Che ci sia una differenza tra ricchi e poveri è normale, la cosa da capire è se il divario italiano sia corretto, almeno secondo standard internazionali, o se sia troppo alto.

La prima cosa da fare per capirlo è fare un confronto con gli altri paesi avanzati. Secondo i dati Ocse, relativi al 2020, ma simili a quelli per il 2021, l’Italia ha un livello di disuguaglianza di reddito superiore rispetto alla media. In Francia e Germania, per esempio, il top 20 per cento ha un reddito tra quattro e cinque volte superiore a quello del 20 per cento più “povero”, mentre ad avere un livello di disuguaglianza più alto sono soprattutto i paesi dell’est Europa o meno avanzati, oltre a quelli che hanno un capitalismo di mercato molto aggressivo rispetto all’Ue, come Regno Unito, Stati Uniti e Israele.

Per fortuna, però, il divario tra l’Italia e il resto d’Europa è relativamente piccolo. Inoltre, il dato è rimasto più o meno costante nel tempo, come avvenuto in molti altri paesi avanzati. Ovviamente non si tratta di una buona notizia in assoluto, ma, se si vuole vedere il bicchiere mezzo pieno, perlomeno la disuguaglianza non è aumentata. Il punto è capire perché.

Anche in Francia e Germania, per esempio, il livello di disuguaglianza è rimasto stabile, segno che le classi più abbienti e quelle meno abbienti sono cresciute allo stesso nel corso degli anni. Anche in Italia non c’è stata molta differenza nei livelli di crescita. Il problema è che il valore della crescita è stato pari a zero o quasi.

Negli ultimi vent’anni, il Pil pro capite italiano è rimasto fermo, mentre quello di paesi come Francia e Germania ha continuato a crescere. Forse siamo stati abbastanza bravi da mantenere più o meno equa la distribuzione delle risorse, ma non abbiamo fatto niente per far crescere il volume della torta da condividere fra tutti.

Il destino della classe media

Il rapporto tra il 20 per cento più ricco e quello più povero, poi, non è l’unica misura per la disuguaglianza. Il dato italiano ci dice semplicemente che i molto ricchi non hanno aumentato il proprio distacco rispetto ai molto poveri. Ma che ne è, per esempio, della cosiddetta classe media?

Secondo i dati del World Inequality Database, tra il 2000 e il 2018 la quota di reddito nazionale in mano al 10 per cento più ricco è aumentata di due punti percentuali (da 35 a 37,5 per cento), mentre quella in mano al 50 per cento meno abbiente (quelli che stanno al di sotto del reddito mediano) è rimasta costante al 16 per cento.

La distanza tra molto ricchi e classe media, dunque, è aumentata. Per ridurre questo divario servono sicuramente politiche distributive in grado di favorire una crescita equa. Prima ancora di quello, però, bisognerebbe tornare a crescere, una cosa che abbiamo smesso di fare da almeno vent’anni.

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