Oggi i sussidi tengono in vita imprese che altrimenti fallirebbero a causa degli effetti della crisi sia sulla domanda che sull’offerta. Solo una parte sono zombie, altre attendono una ripresa, altre ancora utilizzando la Cig in maniera truffaldina. Non è facile valutare con precisione le prospettive di ripresa di ciascuna impresa, ma è necessario. Esattamente come dopo la valutazione, serve una nuova politica industriale
- Oggi i sussidi tengono in vita imprese che altrimenti fallirebbero a causa degli effetti della crisi sia sulla domanda che sull’offerta, colpite simultaneamente entrambe.
- Chiamare zombie queste imprese appare decisamente improprio, ma bisogna analizzare a chi vanno i sussidi: da una parte possono essere utilizzati in maniera truffaldina dall’altra tenere in piedi aziende che non avranno futuro.
- Non è facile valutare con precisione le prospettive di ripresa di ciascuna impresa, una valutazione è necessaria e in un paese come il nostro poco vocato per le valutazioni si tratta di un problema non secondario.
Lo zombi (o zombie, per gli inglesi) secondo la tradizione vudù è un morto richiamato in vita da un boko, un sacerdote che lo sfrutta impiegandolo in lavori illeciti e malefici. Così si legge nel dizionario Treccani. Il primo accostamento di questo termine alle imprese sembra sia stato fatto, in Giappone nel “decennio perso” degli anni Novanta. Le imprese zombie erano “‘tenute in vita” dalle banche che - improbabili boko - le sottraevano alla morte e le spingevano a svolgere il ruolo malefico di congelare risorse che sarebbero state più produttive in altra collocazione. Quando si è parlato negli scorsi anni di imprese zombie con riferimento alla Cina, il boko era lo stato che teneva in vita imprese di sua proprietà, sottraendole a una morte più o meno dignitosa.
La pandemia, con le sue tragiche ricadute su vita e morte di uomini e imprese, ha reso quel termine familiare a un vasto pubblico ma ha anche generato l’impressione che il fenomeno a cui rimanda sia nato proprio con la pandemia. Non è così, come si è appena detto; e non è così anche con riferimento al nostro paese. Negli scorsi anni alle imprese zombie in Italia è stata dedicata attenzione, come documentano, ad esempio, due studi pubblicati dall’Ocse e dalla Banca d’Italia. In generale, il fenomeno veniva considerato rilevante – più che in altri paesi europei – e se ne sottolineavano le implicazioni per la dinamica della produttività, notoriamente assai deludente nel nostro paese. Quale che fosse il meccanismo che le teneva in vita, quelle imprese – si sosteneva – svolgevano il lavoro malefico di costringere le risorse produttive ad essere meno produttive di quanto avrebbero potuto essere.
Chi è il boko?
Ma, tornando ai nostri giorni, la domanda da cui partire è: chi veste oggi i panni del boko? Dando uno sguardo a ciò che si dice e si scrive si ricava l’impressione che sia lo stato, soprattutto con le sue politiche di erogazione di aiuti e sussidi, a tenere artificialmente in vita imprese ormai spente. Il boko a cui ci riferiamo qui di seguito è solo lui.
È normale che in una fase di crisi, i sussidi pubblici al lavoro o agli investimenti permettano di tenere in vita imprese che altrimenti fallirebbero a causa degli effetti della crisi sia sulla domanda che sull’offerta (e non sarà mai ripetuto a sufficienza che questa crisi è speciale soprattutto perché ha colpito simultaneamente entrambe). Chiamare zombie queste imprese appare decisamente improprio. Lo stato più che un boko nella normalità delle cose è un ombrello nella straordinarietà di una tempesta.
I problemi, però, possono essere altri e almeno di due tipi. Il primo, che riguarda il breve periodo, è la possibilità che restino in vita imprese che si avvantaggiano in modo ‘truffaldino’ di quei sussidi. Il secondo si riferisce a un più lungo orizzonte temporale: quei sussidi potrebbero continuare a tenere in vita imprese prive di futuro, anche a causa dei cambiamenti persistenti indotti dalla crisi. Dunque, imprese zombie che resterebbero tali nella ripresa.
Zombi e cassa integrazione
Analizziamo queste possibilità con riferimento alla Cassa Integrazione Guadagni (Cig). Come è noto, con l’esplodere della pandemia la Cig, di fatto, è stata concessa in deroga e senza costi a qualsiasi impresa. Come abbiamo già avuto modo di scrivere su Domani, la Cig così estesa è stata fondamentale per proteggere i redditi dei lavoratori dai drammatici effetti della crisi. Essa ha anche aiutato le imprese a sostenere i costi della crisi e, evitando i licenziamenti, a essere pronte per la ripresa senza dover sostenere costi di assunzione e formazione della manodopera. La Cig in deroga – con altri ristori concessi alle imprese – può, però, aver avuto altri effetti, decisamente meno positivi e tali da consentire di parlare di ‘zombismo’ in senso proprio o, se si vuole, di ‘zombismo’ cattivo.
Una tassonomia non esaustiva è questa: i) imprese che sono nate o che hanno aumentato l’occupazione in periodo di pandemia al solo fine di beneficiare dei sussidi; ii) imprese che, opportunisticamente, hanno scaricato sulla collettività il costo del lavoro ricorrendo allo smart working ma facendo risultare in Cig i lavoratori; iii) imprese in fase di chiusura prima della crisi e senza prospettive future, che sopravvivono grazie alla Cig e ad altri ristori.
Nei primi due casi si tratta di comportamenti chiaramente truffaldini che consistono, principalmente, nel collocare fittiziamente in Cig i lavoratori, vecchi o nuovi, in modo da ridurre i costi del lavoro o addirittura per assicurare il sussidio a parenti o amici assunti solo a questo scopo. Se l’impresa è zombie questo risparmio è decisivo per la sua sopravvivenza. Ma potrebbe darsi, in particolare nel caso dello smart working mascherato, che l’impresa sopravvivrebbe comunque e con la truffa accresce i propri profitti. Nel terzo caso siamo, invece, di fronte al problema di più lungo periodo di cui si è detto in precedenza.
Oltre il fallimento
Al momento non disponiamo di dati sull’estensione dei comportamenti truffaldini, anche a causa di un’attività ispettiva comprensibilmente limitata nei mesi più duri dell’emergenza e della difficoltà a collegare la richiesta di ore di Cig (eventualmente utilizzabili anche successivamente) con l’effettiva performance dell’impresa. Ma le ispezioni possono migliorare ed è relativamente facile stabilire quale trattamento riservare a queste imprese.
Nel terzo caso la questione è decisamente più complessa. Anzitutto non è facile valutare con precisione le prospettive di ripresa di ciascuna impresa. Eppure una valutazione è necessaria e in un paese come il nostro poco vocato per le valutazioni si tratta di un problema non secondario. Se la valutazione fosse negativa occorrerebbe, con l’aiuto di una legge fallimentare opportunamente rivista, favorire la chiusura e prendersi carico delle risorse così liberate con ben calibrati interventi di politica industriale e del lavoro, e anche della concorrenza. Perché non basta allentare i sussidi, permettere il fallimento e liberare le risorse per risolvere il problema. Fare quanto si è detto appare necessario per favorire la ripresa economica e per fare in modo che alla morte definitiva degli zombie non segua soltanto il lutto.
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