L’autrice e podcaster Chanté Joseph ha avuto problemi col sonno fin dall’adolescenza, quando provava a incastrare lo studio e le numerose attività extrascolastiche. Le cose non sono migliorate poi negli anni universitari, di cui ricorda soprattutto la stanchezza.

In una continua ricerca di «eccellenza e riconoscimento», Joseph vedeva «il sonno come qualcosa che poteva essere sacrificato e tiravo fuori produttività da ogni ora del giorno, non rendendomi conto dell’impatto che questo stava avendo sul mio corpo».

Quella di Chanté Joseph non è un’esperienza unica, ma una questione sociale: «La tua capacità di riposo», ha scritto infatti l’autrice, «non è indipendente dalla tua identità o dalla tua posizione socioeconomica». E in quanto donna nera, le sue difficoltà a concedersi di riposare e dormire affondano le radici nell’intersezione tra le oppressioni di genere e quelle razziali del sistema patriarcale, capitalista e suprematista bianco in cui viviamo.

Il valore morale del lavoro

L’accezione negativa associata oggi al riposo è la conseguenza del significato attribuito alla produttività e al lavoro. Come spiega Virginia Cafaro nel suo saggio Manifesto pisolini. Guida femminista sul diritto al riposo, la classe dominante che possiede «i mezzi di produzione e, grazie al tempo del lavoro altrui, può concedersi il lusso di “non fare nulla”» ha rivestito infatti il lavoro di valore morale: non più e non solo necessità economica, il lavoro è diventato ciò che dà significato alle nostre vite.

È quello che il giornalista Derek Thompson chiama workism (lavorismo), ovvero la credenza per cui la realizzazione personale passa attraverso il lavoro. Solo chi lavora, e tanto e con passione, ha diritto a una vita di soddisfazioni e successo, ci viene fatto credere, ma è un’illusione che non tiene conto del fatto che dedicare un numero smisurato di ore a lavorare porta non alla felicità di chi lo fa ma piuttosto di chi vi si arricchisce.

«Si tratta di un’azione voluta e ponderata da parte di chi ha sempre avuto interesse a mantenere alta la soglia della produttività: rivestendo il lavoro di un valore morale, promuovendo il sillogismo tra lavoratrice/tore e merito, la classe dominante ha intrappolato chi lavora in un inganno», ha spiegato Cafaro, che nel suo saggio l’ha definita una strategia per «rendere appetibile lo sfruttamento».

Questo è soprattutto vero per le donne che oltre a svolgere un lavoro fuori casa sono anche considerate le principali responsabili del lavoro dentro casa. L’organizzazione familiare, la gestione dei figli, la cura dei parenti anziani sono attività non retribuite e narrate come espressioni naturali dell’indole femminile, quando in realtà sono piuttosto imposte: un altro esempio dello stesso inganno per poter «dimostrare di meritarsi il proprio posto nel mondo», sostiene Cafaro.

Capitalismo cronofago

Questo inganno deriva dal fatto che il tempo della classe lavoratrice è essenziale al mantenimento dello stato delle cose e della ricchezza di chi detiene il potere: è una merce, ed è ciò di cui il capitalismo si nutre.

Da qui il filosofo Jean-Paul Galibert ha coniato il termine “cronofagia” (letteralmente, “mangiare il tempo”) che si riferisce alla volontà del capitalismo di depredare il nostro tempo. Lo vediamo nel giudizio positivo associato alla produttività che ci spinge a considerare ammirevole lavorare senza sosta; o nei sensi di colpa instillati e interiorizzati da chi ha bisogno di riposare.

Come spiega il giornalista Davide Mazzocco nel saggio Cronofagia, il capitalismo riduce il tempo da dedicare al riposo attraverso l’«erosione del tempo dell’inattività e, quindi, della non redditività». Questo avviene non solo attraverso l’estensione delle ore lavorative, ma anche infiltrandosi in quelle del riposo.

Da un lato infatti, il capitalismo cronofago ha introdotto un sistema di valori anche per il modo in cui gestiamo il tempo libero, per cui riposarsi per ricaricarsi ed essere più produttivi è giusto, così come lo è usarlo per formarsi e migliorarsi nella propria professione; non lo è invece dedicarsi alle passioni, ad attività di piacere fini a se stesse, a dormire o a oziare. Dall’altro lato sono le ore di riposo e di sonno che il capitalismo cronofago vuole invadere. A questo proposito Mazzocco cita il cofondatore di Netflix Reed Hastings che definì il sonno come l’unico vero competitor per la piattaforma di streaming.

Lo stesso ragionamento vale per i social: «Trascorrere tempo su Instagram o qualsiasi altro social media può, idealmente, rientrare nell’ecosistema dello svago, tra foto di tramonti, video di animali carini e così via. Tra un contenuto e l’altro, tuttavia, incappiamo sempre in immagini sponsorizzate da brand di varia natura che ci rendono vulnerabili a qualsiasi tipo di acquisto: così il digitale trasforma il nostro tempo libero in tempo profittevole per terzi, rubandolo della propria natura rigenerante e benefica», dice Cafaro.

La necessità del riposo

Attraverso la «colonizzazione dell’esistenza», come la chiama Cafaro, il capitalismo cronofago ha reso il riposo sempre più marginale tra chi non può permetterselo. Chi non ha altre forme di reddito o sostegni oltre al proprio salario, chi ha un contratto precario, chi oltre al lavoro retribuito svolge anche quello di cura non solo lavorerà più del necessario, ma trascorrerà anche molto del proprio tempo fuori dall’ufficio in uno stato di preoccupazione per la propria situazione.

Questo ha delle conseguenze sul benessere psicofisico: l’assenza di riposo e lo stress prolungato infatti possono portare al burnout, e cioè allo sfinimento fisico e psicologico. Secondo Tricia Hersey, autrice di Rest is resistance - Manifesto (Il riposo è resistenza), oggi il burnout è addirittura normalizzato, ma andrebbe piuttosto riconosciuto come «trauma»: «Ci stiamo letteralmente uccidendo. La privazione del sonno è un problema di diritti umani e di salute pubblica. I nostri corpi non sono fatti per il burnout».

Reclamare il riposo come privo «di qualsiasi intento economico e subordinazione morale», spiega anche Cafaro, è dunque un diritto e una necessità, ma non solo: è un’azione di cura collettiva.

Al contrario infatti dell’«industria tossica e pervasiva del self-care», come l’ha definita Hersey, che considera il riposo un fatto individuale e finalizzato a una maggiore produttività, il riposo come cura collettiva prevede invece la presa di coscienza del sistema in cui viviamo e del diverso impatto che questo ha sulla base della propria identità, e ha l’obiettivo di ampliare le occasioni, la qualità e i significati del riposo così come le azioni di cura reciproca, per chiunque ne abbia bisogno.


Manifesto pisolini. Guida femminista sul diritto al riposo (Le plurali 2024, pp. 160, euro 12) è un saggio di Virginia Cafaro 

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