«Lo chiamano amore, noi lo chiamiamo lavoro non pagato». Era il 1976 e così Silvia Federici, attivista e femminista italiana naturalizzata statunitense, scriveva in Salario contro il lavoro domestico. Ma non era sola. Cinque anni prima la sociologa Mariarosa Dalla Costa aveva pubblicato Donne e sovversione sociale – poi inserito nel libro Potere femminile e sovversione sociale – un saggio da discutere a Padova con i membri di Lotta Femminista. Nel libro, che sarebbe diventato la base del movimento del salario al lavoro domestico (Wages for housework), Dalla Costa sosteneva che il lavoro domestico gratuito è un impiego vero e proprio, non un «lavoro d’amore».

Sono passati circa cinquant’anni, ma il lavoro svolto tra le mura di casa continua a essere soprattutto a carico delle donne che, secondo i dati dell’Organizzazione Internazionale del lavoro (Oil) del 2018, svolgono a livello mondiale il 76,2 per cento delle ore totali dedicate al lavoro di cura e assistenza non retribuito, e in nessun paese al mondo c’è un’equa distribuzione tra i due generi. Un’indagine sull’uso del tempo svolta in 64 stati ha stimato che ogni giorno 16,4 miliardi di ore sono dedicate al lavoro di cura non retribuito. Se questi servizi fossero valutati sulla base di un salario minimo orario il Pil mondiale aumenterebbe del 9 per cento, pari a circa 11mila miliardi di dollari. «Ci piacerebbe credere – scrive la giornalista Caroline Criado Perez nel suo saggio sulle differenze sociali di genere, Invisibili – che il lavoro gratuito delle donne sia una questione squisitamente privata: una scelta personale fatta dalle donne per il vantaggio personale dei familiari che beneficiano della loro assistenza. Ma purtroppo non è così: l’intera società dipende dal lavoro non retribuito delle donne e da quel lavoro trae beneficio».

La situazione italiana

L’Istat analizza le ore dedicate al lavoro di cura e domestico, al tempo libero e alla professione in un’indagine specifica, I tempi della vita quotidiana, ma l’ultima analisi risale al 2014. «Sono dati molto vecchi. A breve dovrebbe uscire un nuovo report, ma lo stiamo aspettando da due anni. Si può sperare che l’Italia in quasi dieci anni sia cambiata, ma non dobbiamo dare per scontato che sia migliorata. Se si prendono come esempio gli indicatori del World economic forum noi siamo stazionari o peggioriamo nel tempo», dice Marcella Corsi, professoressa di economia alla Sapienza ed esperta di economia di genere.

L’Oil ha evidenziato che la situazione negli ultimi vent’anni è leggermente sfumata, aumentando a una velocità annuale di 1,2 minuti al giorno per gli uomini, mentre le donne hanno ridotto il tempo dedicato al lavoro di cura di 2,1 minuti al giorno. Un miglioramento però troppo lento: se il cambiamento continuerà a questo ritmo l’uguaglianza di genere in questo campo si realizzerà nel 2066.

L’ultima analisi Istat disponibile evidenzia che con l’aumento dell’età aumentano anche le differenze di genere. Il lavoro retribuito occupa il 19,4 per cento della giornata media degli uomini (4 ore e 39 minuti) contro il 9,9 per cento di quella delle donne (2 ore e 23 minuti). Al contrario, quello familiare rappresenta il 21,7 per cento della giornata media femminile (5 ore e 13 minuti), contro il 7,6 per cento di quella maschile (1 ora e 50 minuti). Le differenze si intensificano nel fine settimana, soprattutto tra gli occupati. Se nel giorno feriale gli uomini hanno a disposizione solo 35 minuti di tempo libero in più delle donne, il sabato si passa a un’ora e 15, che aumenta a un’ora e 35 la domenica. Perché, spiega il report, quasi sempre il maggior tempo libero delle donne nel weekend si traduce in un impegno in famiglia, mentre per gli uomini rimane vero e proprio tempo libero.

Ma le più grandi differenze di genere nell’utilizzo del tempo maschile e femminile non riguardano tanto il lavoro di cura nei confronti di bambini o anziani, quanto quello domestico. «È lì che le differenze ataviche tra uomo e donna in Italia, come in tanti altri paesi, si manifestano. Durante la pandemia gli uomini chiusi in casa apparentemente si facevano coinvolgere di più in queste attività, ma non è detto che quegli effetti positivi siano durati nel tempo», continua la professoressa Corsi.

Il lavoro di cura gratuito rimane però un lavoro invisibile dal punto di vista economico. Infatti, non è possibile sapere con precisione quanto vale perché nessun paese raccoglie dati sistematici, sono disponibili solo stime. Per le economiste Francesca Francavilla e Gianna Claudia Giannelli, ad esempio, equivarrebbe circa al cinque per cento del Pil italiano, anche se l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico ha detto che, in base al metodo di calcolo utilizzato, potrebbe raggiungere anche il 25 per cento nel nostro paese.

Le conseguenze

Il carico degli impegni familiari non retribuiti è il principale ostacolo all’entrata nel mondo del lavoro per le donne, oltre a influire sul numero delle ore stipendiate e sul reddito. In Italia, il 21 per cento delle donne in età da lavoro dice di non essere nel mercato lavorativo a causa del carico di informale svolto tra le mura di casa. Infatti, le madri con figli piccoli (sotto i sei anni) hanno un tasso di occupazione più basso rispetto ai padri, ai lavoratori non padri e alle donne non madri di bambini tra zero e cinque anni. Anche nel caso in cui la madre abbia un impiego, il tempo che può dedicargli deve spesso essere rimodulato tenendo conto degli impegni domestici, impedendole in molti casi di fare carriera al pari degli uomini.

Come ridistribuire il lavoro

«Dovrebbero essere introdotti sgravi per le madri. Un esempio sono gli asili nido, che rappresentano un servizio importante dal punto di vista dell’alleggerimento della cura, non tanto però nella redistribuzione dell’onere che è invece lo scopo finale», dice Corsi. In tal senso, un cambiamento potrebbe avvenire con l’introduzione di maggiori investimenti economici, sanitari, assistenziali e sociali. Nel pratico l’inserimento dei congedi di paternità obbligatori rappresenterebbe una svolta. «In Spagna, il fatto che gli uomini debbano obbligatoriamente usufruire del congedo di paternità da uno a tre mesi, esattamente come le madri, sta modificando la struttura della distribuzione del lavoro nei nuclei familiari. Sono piccoli ma anche grandi segnali di cambiamento che possono fare la differenza». I congedi però dovrebbero essere, oltre che lunghi e obbligatori, pienamente retribuiti per non condannare all’impoverimento.

La gestione del lavoro domestico è unicamente una questione culturale. «Sarebbe importante far divertire anche i bambini a stirare, cucinare o pulire casa a partire dalla scuola dell’obbligo. La delegazione di certe mansioni alle donne è un problema culturale che si combatte partendo principalmente dalla scuola. Le famiglie devono fare la loro parte ma possono agire unicamente a livello atomistico. Solo se si inserirà nei programmi di educazione civica diventerà un cambiamento reale».

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