«La radio era spenta perché si era scollegato tutto. Il vento prima ci ha sbattuti dalla parte della strada, poi verso il mare. La cabina della gru su cui ci trovavamo si era tutta accartocciata. Mi sono girato e ho visto che il quadro elettrico si era staccato e ce l’avevo sopra la schiena. Gli urti avevano aperto un foro in mezzo ai fili e sono uscito a cagnolino. Il collega Sasso faceva fatica anche a respirare, perché si era rotto due o tre costole, non so quante costole erano. Quando siamo saliti sopra al braccio, ho girato lo sguardo e la cabina di Francesco non c’era. Io e Sasso siamo scesi da soli, aiutandoci l’uno con l’altro, tutti insanguinati. Ci abbiamo messo un’ora e mezza».

A pronunciare queste parole, con la voce spezzata a più riprese dalle lacrime, è Simone Piergianni, gruista Ilva, ascoltato al processo Ambiente svenduto come testimone dell’accusa.

Il 28 novembre 2012 un tornado colpì il territorio tarantino investendo in pieno l’acciaieria. Il “Francesco” a cui si riferisce è Francesco Zaccaria, che quel giorno lavorava sulla gru accanto alla sua. Il suo corpo senza vita venne ripescato in mare, dove era precipitato con tutta la cabina dopo un volo di sessanta metri, solo il giorno seguente: non aveva ancora compiuto trent’anni. Neanche un mese prima, il 30 ottobre, un altro operaio dell’Ilva, il locomotorista Claudio Marsella, aveva perso la vita dopo essere rimasto schiacciato tra due vagoni durante una manovra.

A ripercorrere questi eventi drammatici davanti alla Corte d’Assise di Taranto è stato il pubblico ministero Raffaele Graziano che ha curato la parte della requisitoria – in tutto nove udienze spalmate su tre settimane – relativa ai reati in materia di sicurezza sul lavoro. A questo capitolo i magistrati hanno dedicato quattro capi di imputazione legandoli allo stesso filo conduttore: incidenti e lutti avrebbero potuto essere evitati, ma tutto veniva sacrificato al profitto.

Chi si ferma è perduto

Un’acciaieria a ciclo integrale ha bisogno di essere alimentata senza sosta: se si interrompe il flusso dei materiali da avviare alla lavorazione, si blocca tutto. Così al porto ci sono enormi gru che prelevano i carichi dalle navi e li depositano a terra. Per smistarli in ogni angolo dello stabilimento ci sono 200 chilometri di binari. L’unica cosa che stava a cuore alla famiglia Riva, sostiene l’accusa, era fare in fretta: le vite di Marsella e Zaccaria, secondo i magistrati che formulano l’imputazione di omicidio colposo, sono state il prezzo di quella fretta. Sono contestati anche i reati di violazione delle norme in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro, rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro, lesioni colpose in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro. L’accusa ha chiesto 20 anni di reclusione per Adolfo Buffo, all’epoca dei fatti direttore del siderurgico; 5 anni per Antonio Colucci, responsabile sbarco materie prime; 3 anni e 9 mesi per Giuseppe Dinoi, capo reparto; un anno e 3 mesi ciascuno per Cosimo Giovinazzi, capo del reparto movimento ferroviario, e Giovanni Raffaelli, ispettore tecnico di Arpa Puglia.

Per quanto riguarda il locomotorista Marsella, i magistrati contestano agli imputati di non avere fornito ai lavoratori attrezzature idonee e appropriate alle lavorazioni da svolgere, in particolare le staffe ferma-carro, indispensabili per la sicurezza.

Marsella doveva agganciare un locomotore a un convoglio di sette vagoni carichi di bramme (grandi lingotti d’acciaio utilizzati nella produzione di lamiere).

Per farlo, avrebbe posizionato il comando del locomotore in folle, in modo da farlo procedere per inerzia fino all’aggancio dei carri, ma non avrebbe rispettato la prevista distanza di sicurezza di tre metri tra la testata del locomotore e quella dei vagoni, peraltro non immobilizzati per la mancanza dei dispositivi di bloccaggio, rimanendo così preso in mezzo.

L’organizzazione negligente delle lavorazioni, tra cui l’omessa vigilanza e la mancanza delle staffe, avrebbero avuto un ruolo decisivo nella tragedia.

«Compratele alla Standa»

Domenico Rizzo, ex operaio Ilva che all’epoca dei fatti lavorava, come la vittima, al reparto movimento ferroviario, chiamato a deporre come teste dell’accusa, ha raccontato che, quando chiedeva al capoturno o al capoarea di fornire le staffe, si sentiva rispondere «le staffe le trovi ai cavalli», oppure «vai alla Standa»: «Metti il tacco», gli dicevano, dove i “tacchi” erano pezzi di legno di fortuna sparsi lungo tutta la linea ferroviaria. La musica sarebbe radicalmente cambiata solo dopo il decesso di Marsella: a quel punto le staffe non solo venivano fornite, ma addirittura gli operai trovavano il capoturno ad aspettarli, già pronto con i fermacarri, ancora prima di arrivare ai convogli.

Quando Colucci è stato sentito in aula, ha detto di avere chiesto chiarimenti a Giovinazzi, come lui imputato, sulla mancanza dei fermacarri: nel caso di brevi soste temporanee il sistema frenante dei vagoni era ritenuto sufficiente, così le staffe venivano utilizzate solo quando era davvero necessario, perché se no «sparivano dallo stabilimento, cioè se le rubavano… Al punto che quando poi noi abbiamo reintegrato settecento staffe, a distanza di due mesi sono sparite tutte». Ma nel caso di Marsella i carri erano in sosta da diverse ore e le staffe risultavano custodite a tre chilometri di distanza.

Secondo l’accusa, anche Francesco Zaccaria sarebbe vittima di un lungo elenco di violazioni, negligenze e omissioni, a cominciare dalle condizioni della gru su cui la vittima si trovava, la DM5: gli imputati avrebbero consentito l’utilizzo di apparecchiature di sollevamento «non idonee all’uso, omettendo di procedere al ripristino dell’efficienza delle stesse, che risultavano in esercizio da oltre trent’anni, in pessimo stato di conservazione e del tutto prive di idonea valutazione di vita residua sull’effettivo stato di integrità delle predette, e ciò nonostante mantenute in esercizio e utilizzate in condizioni di evidente pericolo dai lavoratori».

Inoltre, la gru presentava difformità nel respingente di fine corsa – un dispositivo che avrebbe impedito alla cabina di andare a sbattere come impazzita da una parte all’altra, prima di schizzare via come un proiettile – rispetto al progetto del costruttore.

Ma c’è dell’altro: secondo i magistrati non era stata fatta una valutazione del rischio connesso ad avverse condizioni meteo e non era stato predisposto un piano di evacuazione e di emergenza. Inoltre, gli operai chiamati a deporre dall’accusa hanno testimoniato che la formazione dei lavoratori in merito alle procedure da adottare e ai dispositivi da utilizzare in caso di emergenza meteo, come il fermo anti-uragano e le ganasce anti-bufera, era totalmente inesistente: quando glieli hanno mostrati in foto, nessuno di loro li ha riconosciuti.

Le consulenze della difesa

Per difendersi, anche in questo caso gli imputati hanno chiamato esperti di vaglia. Il meteorologo del Cnr Mario Miglietta ha puntato sulla eccezionalità dell’evento che investì Taranto quel 28 novembre, con il vento a 230 chilometri orari, paragonabile solo ai tornado registrati e studiati negli Usa. Miglietta ha ricordato che il bollettino diramato la mattina della tragedia conteneva solo un’allerta per venti intensi e occasionali temporali o rovesci.

Giulio Ballio e Giancarlo Parodi, esperti di strutture in acciaio, hanno sostenuto che né il fermo antiuragano, né il fine corsa avrebbero potuto resistere a un evento così estremo ed evitare la tragedia.

L’accusa ha battuto molto sull’assurdità dell’aver lasciato per ore gli operai in cima alle gru in attesa che le condizioni meteo migliorassero, fino a quando poi non è avvenuto il disastro: se ce li hanno fatti restare, dicono i pm, è perché salire di nuovo avrebbe richiesto almeno venti minuti, una perdita di tempo considerata eccessiva. L’accusa ha anche denunciato come un ordine di servizio a firma Dinoi, datato 9 febbraio 2012, che prevedeva la discesa a terra del personale operante in caso di vento superiore a 72 chilometri orari, sarebbe stato sconosciuto a tutti i lavoratori e non risulterebbe nemmeno nell’aggiornamento delle pratiche operative Ilva del successivo 8 marzo, insinuando così che potrebbe essersi trattato di un maldestro tentativo di mettere una toppa a posteriori. All’Ilva, dicono i pm, le misure sulla sicurezza venivano adottate sempre col contagocce e solo dopo le tragedie.

Lutti continui

La gestione Riva si è conclusa nove anni fa, ma morti e infortuni sul lavoro non sono cessati con la loro uscita di scena: il 10 luglio 2019, in piena èra ArcelorMittal, durante una tromba d’aria a 110 chilometri orari, il gruista Cosimo Massaro è precipitato in mare con tutta la cabina. Lo hanno ripescato cadavere tre giorni dopo. Al momento dell’incidente stava lavorando sulla gru DM5, la stessa di Roberto Zaccaria.

© Riproduzione riservata