Antonio Moccia, tra i capi dell’omonimo clan, egemone a Napoli e a Roma, è stato condannato a 24 anni per camorra. Il processo di primo grado durava da 12 anni, un record incredibile e negativo.  Nonostante le sollecitazioni della procura, all’epoca guidata da Giovanni Melillo, il dibattimento ha subito rallentamenti, rinvii, deposito continuo della lista testi a ogni cambio del collegio. Dal 2004 al 2010, secondo il tribunale partenopeo, il boss è stato a capo del clan che ha il suo feudo ad Afragola e il suo cuore operativo nella capitale.

In una delle udienze Antonio Moccia, difeso dall’avvocato Saverio Senese, aveva ribadito quello che più volte la famiglia si chiede: «Cosa dobbiamo fare per non avere più problemi con la giustizia?», una domanda che i membri della famiglia hanno posto più volte agli inquirenti. Ora è arrivata una risposta, nel processo istruito dalla magistrata Ida Teresi, raggiunta, negli anni, da esposti, denunce e procedimenti disciplinari, tutti chiusi in un nulla di fatto, rea di aver fatto il suo dovere ascoltando collaboratori e continuando, pervicacemente, a indagare su quel clan.

Denunce e minacce

Antonio Moccia, considerato il reggente, ad Afragola, nel recente passato, ha fatto affiggere manifesti per tutta la cittadina prendendo le distanze da ogni attività estorsiva. Manifesti affissi ovunque con tanto di imposte pagate al comune. La solita strategia del clan di allontanare dalla famiglia ogni sospetto, raccontano i pentiti.

«Un clan in grado di permeare così profondamente il tessuto connettivo sociale da riuscire a plagiare le coscienze e l’economica condizionando le consultazioni elettorali, influenzando gli esiti di vicende processuali complesse mediante strategie difensive come la corruzione di testimoni e collaboratori di giustizia, e infine sostenendo proposte legislative finalizzate al riconoscimento dei benefici di pena ai cosiddetti dissociati», si legge nelle carte di una delle ultime inchieste della procura di Napoli sul clan.

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