Il fuoco, l’allarme, i volontari, i Canadair, boschi e riserve naturali che bruciano, lo spegnimento, la conta dei danni, le polemiche, i sospetti, le riunioni in prefettura, gli impegni solenni. E poi, di nuovo: il fuoco, l’allarme. i volontari... Questa cantilena sembra ormai diventata il vero tormentone dell’estate siciliana. Non passa giorno che non ci sia qualche piccolo o grande rogo, con i mezzi in azione, la Protezione civile, i volontari sul campo. E poi la conta dei danni e le accuse e i sospetti: sono stati quelli della forestale, è la mafia dei pascoli, sono semplici piromani. Gli appelli, gli esposti, le procure che aprono fascicoli. Intanto la Sicilia brucia. Come ogni estate, anche questa estate.

Venerdì sono divampati centinaia di incendi nelle zone intorno alla piana di Catania, sia sulla costa ionica che nell’entroterra. Nel primo fine settimana di luglio erano stati 34 i roghi registrati in tutta la Sicilia. A bruciare, per due giorni e due notti, era stata principalmente la zona di Troina, al centro dell’isola. Un altro incendio, dalle parti di Balestrate, nel palermitano ha portato anche alla chiusura dell’autostrada Palermo-Mazara del Vallo. Il fine settimana precedente era stata l’oasi di Vendicari, dalla parte opposta della Sicilia, a essere devastata da un incendio. E già maggio e giugno avevano visto fuoco e fiamme nella riserva di Monte Bonifato, ad Alcamo.

Solitamente, agli incendi segue lo spegnimento. Dopo, il bilancio dei danni. È un rituale che si ripete da anni: le associazioni ambientaliste che “insorgono” e il coro di ipotesi, gli appelli, gli impegni, le promesse, le riunioni straordinarie alla regione siciliana come nelle prefetture. Fino agli incendi successivi. L’ultima trovata del presidente Musumeci è la richiesta di inviare l’esercito, come nell’operazione “Vespri siciliani”, dopo le grandi stragi di mafia del 1992. Nel frattempo la regione ha ideato anche uno spot televisivo: «Se avvisti un incendio chiama il 1515». A medio e lungo termine l’impatto degli incendi è devastante. Perché portano al disboscamento. E al disboscamento seguono le frane.

Storia di un tabellone

Per capire quello che accade si può fare un viaggio a ritroso, partendo dalla zona più colpita, San Vito Lo Capo, ormai tra le mete turistiche principali dell’isola. Un ulteriore livello di notorietà è stato raggiunto grazie alla serie tv Makari, ambientata nell’omonima frazione, ai piedi della riserva dello Zingaro. I paesaggi da cartolina della Sicilia occidentale sono entrati nelle case di milioni di italiani. Nelle case di chi abita in zona, invece, c’è il rischio che entri, letteralmente, la montagna. Perché la stessa zona di Makari, insieme alla riserva dello Zingaro, comincia a pagare il prezzo di anni di incendi. E la conseguenza è che il territorio inizia a franare.

Che fare? Di fronte all’allarme dei residenti, spaventati dalle prime frane, il comune di San Vito Lo Capo ha deciso di risolvere la faccenda con un tabellone, spuntato all’improvviso in strada, per mettere, diciamo, le mani avanti. Invita i residenti a non dormire in camere «rivolte alla montagna». C’è il pericolo che venga giù tutto. Così, «nel caso di un rumore violento proveniente da monte», meglio correre a valle. Meglio andare via anche in caso di pioggia, anzi, di «eventi pluviometrici». Infine: «In ogni caso, al manifestarsi di ogni evento che potrebbe essere valutato come presagio per un incipiente crollo, mettersi al riparo e possibilmente abbandonare la zona».

Sembra uno scherzo, questo avviso, ma non lo è. È l’unico risultato prodotto dopo svariati appelli al comune, esposti, incontri, circolari della Protezione civile: un tabellone.

«Noi facciamo tutto il possibile – dice il sindaco di San Vito Lo Capo, Giuseppe Peraino – ma amministriamo con poche risorse un territorio molto vasto». Frane e incendi sono l’incubo del primo cittadino. «Quest’anno abbiamo anche istituito il servizio dei volontari». Le hanno chiamate le «sentinelle del fuoco». Ma l’idea è stata un flop. Infatti all’avviso del comune hanno risposto solo in tre. Peraino allarga le braccia: «Abbiamo risorse limitate, e i cittadini che si lamentano, poi, non danno il contributo quando vengono chiamati a ruoli di responsabilità». E mentre la regione punta sui droni, al comune aspettano le «telecamere a infrarossi». Telecamere sensibili alle alte temperature che, appena avvertono un calore anomalo, lanciano l’allarme. Ma se ne parla per la prossima stagione estiva. Il costo di otto telecamere è di 180mila euro.

Il caso di San Vito Lo Capo è arrivato anche in parlamento, con un’interrogazione dei deputati Raffaele Trano e Pino Cabras (ex M5s oggi iscritti al gruppo L’alternativa c’è), che hanno denunciato che le reti paramassi non sono mai state collaudate. Inoltre «non c’è un piano per garantire l’incolumità pubblica e inutili, sinora, si sono rivelati i richiami della Protezione civile nazionale al comune». A San Vito Lo Capo, inoltre, il Piano comunale di Protezione civile non è aggiornato dal 2013. L’unica cosa aggiornata, insomma, è quel cartellone. Ultima conseguenza del grande incendio del 2020.

Il grande incendio del 2020

L’anno orribile sembrava il 2017. In quell’anno in Sicilia sono stati bruciati 34.221 ettari di superficie, dei quali la metà di bosco. Tutti dicevano: mai più. Poi è arrivato il 2020, ed è stata un’escalation. Da Selinunte all’Etna, da Noto ai monti Peloritani: 35.900 ettari in fumo. Fino al tragico incendio di fine agosto.

In zona lo vivono ancora come un incubo, quel grande incendio che dal 29 al 31 agosto del 2020 ha distrutto il 90 per cento della riserva dello Zingaro: 40 milioni di danni complessivi in tre giorni, secondo le stime della regione.

Eppure, è stata una tragedia annunciata. Il 28 agosto viene diramata l’allerta rossa per incendi da parte della Protezione civile. Ma, rapporti alla mano, non si attiva nessuna misura per rafforzare i controlli. Il 29 agosto ci sono già di mattina quattro tentativi di innesco di incendi. Per puro caso non hanno fortuna. Ma dalla stessa località parte poi, nel pomeriggio, l’incendio che porterà ai tre giorni di inferno vissuti dagli abitanti della zona, che oggi raccontano: «Chi ha appiccato l’incendio conosceva bene il territorio e sapeva anche che il viale parafuoco non era stato pulito a dovere. Ha aspettato il momento buono per attivare gli inneschi». Sono testimonianze importanti, perché fanno pensare alla “mano interna”, al fuoco appiccato da chi sa come funziona (male) il sistema. «Gli incendi hanno colpito anche le vie di accesso a San Vito e Makari. Ci hanno voluto isolare: una trappola mortale. Una precisa scelta», continuano i residenti.

E infatti, sono quasi impossibili gli interventi da terra. Quindi si ricorre a elicotteri e Canadair, che arrivano solo il giorno successivo. Vengono effettuati 1.038 lanci d’acqua con gli elicotteri, 539 con i Canadair.

Una tragedia annunciata ed evitabile. La tecnica usata, e i luoghi, sono gli stessi di grandi incendi nella zona negli ultimi anni. «Inoltre, l’allerta meteo avrebbe dovuto attivare i protocolli di prevenzione. Invece, si è preferito rincorrere il fuoco anziché giocare di anticipo» racconta Mariangela Galante, portavoce del comitato “Salviamo i boschi” che dal 2017 si batte per la tutela del territorio siciliano.

C’è anche la beffa: l’incendio è passato da una postazione fissa di operai forestali che poi riferiranno che non potevano fare niente perché non era loro competenza e «se ne dovevano occupare i pompieri».

Le indagini

Ma chi sono gli incendiari? È giusto chiamarli piromani? C’è un’organizzazione criminale dietro? E perché? Sugli incendi sappiamo tantissimo circa le conseguenze, pochissimo sulle origini. Ogni tanto gli incendiari vengono scoperti e denunciati. E si scopre quanto, come sempre, tutto il male sia più semplice di come lo si racconta. Alcuni dei responsabili del grande incendio dell’agosto scorso, ad esempio, sono stati scoperti. Sono due uomini che hanno appiccato le fiamme in diversi punti, lanciando degli inneschi dalle auto. E hanno creato un disastro ambientale, dicono dalla procura di Trapani, per «alcune controversie con altri allevatori, per ragioni di pascolo», utilizzando le spirali antizanzare, o i cubetti accendi fuoco.

Il gruppo di associazioni e di cittadini del comitato “Salviamo i boschi”, ha avviato delle indagini, incrociando fonti, chiedendo documenti, facendo accesso agli atti, raccogliendo in giro testimonianze, filmati, foto. Il quadro che ne emerge è molto più complesso delle apparenze.

Il primo campo di indagine riguarda i “forestali”, come vengono chiamati in Sicilia i dipendenti dell’Azienda regionale delle foreste demaniali e del Corpo forestale della regione. Il luogo comune vuole che siano loro i grandi incendiari: danno fuoco ai boschi, per poi essere chiamati a intervenire e lavorare di più. «In realtà si tratta di un retaggio degli anni ‘90 – dicono dal Corpo –. Abbiamo subìto una campagna denigratoria a seguito di un paio di casi isolati. Ma, con riferimento al personale in divisa, abbiamo un organico ridotto al minimo. In tutta la Sicilia ci sono 500 unità. In Sardegna, per fare un paragone, sono 1.500».

Per essere assegnati al servizio antincendio i forestali devono aver conseguito un’apposita abilitazione. I ruoli sono tre: pronto intervento, autisti di autobotti o di mezzi speciali, addetti alle torrette di avvistamento e alle sale operative.

Ogni anno la regione emana il bando per queste figure. Per farci un’idea, solo in provincia di Trapani servono 320 persone per il pronto intervento, 92 autisti, 110 torrettisti. Cioè, 522 persone. Sono tante si dirà. Non proprio. Perché oltre a essere distribuite male nel territorio, da un accesso agli atti si scopre che il 40 per cento ha patologie mediche tali da dover essere destinato ad altri incarichi (ad esempio la vigilanza) senza essere sostituito. O ancora, sempre per motivi di salute, non possono scendere dai mezzi che guidano. Sono stati trovati addetti antincendio assegnati al garage come meccanici o alla sala radio, senza alcuna qualifica.

Ma come fanno a essere selezionate persone che non possono, per il loro stato di salute, svolgere quel compito? Questo avviene perché le visite mediche sono fatte con grande ritardo. Nell’anno 2017, la gara di appalto per le visite mediche, si è svolta il 19 luglio, a ben 35 giorni di distanza dall’inizio della campagna antincendio e le visite sono iniziate solo il 1° agosto.

Gli autisti hanno un’età media di 60 anni. Alcuni non hanno l’abilitazione Caib (Conduttore automezzi incendio boschivo). I mezzi che guidano sono molto vecchi. A fine ottobre sono stati trasferiti nell’autoparco dell’Ispettorato forestale di Trapani dove sono rimasti fermi, all’aperto, senza manutenzione, per tutto l’inverno, fino all’estate successiva. Una grossa autobotte, da 8.000 litri, con cannone, è rimasta ferma davanti alla casa dell’autista.

I siti di avvistamento degli incendi non sono curati. Una torretta che in località Inici permette il controllo di buona parte del territorio nord della provincia di Trapani, è inagibile da anni. Altre vengono dismesse nonostante il rischio di incendi. Vengono impiegati uomini privi di abilitazione.

Poi c’è il grande affare dei Canadair. La richiesta di intervento aereo parte dalla sala operativa provinciale che raccoglie una segnalazione del Dos (Direttore operazioni di spegnimento) e la inoltra al Cor (Centro operativo regionale), che a sua volta contatta la ditta proprietaria dei velivoli. A ogni richiesta di intervento (anche nel caso dovesse andare a vuoto) la ditta riceve un rimborso di 10mila euro, mentre i lanci sono pagati 1.300 euro. Il pagamento può avvenire anche a ore: 15.000 euro l’ora. È la ditta che sceglie: se l’incendio è vicino, si preferisce il pagamento a “lancio”, se è lontano, il pagamento a ora.

La spesa media annua per lo spegnimento aereo degli incendi in Sicilia è 30 milioni. Ma perché rivolgersi ai privati? Perché i Vigili del fuoco hanno i mezzi (la flotta nazionale comprende 19 Canadair), ma non hanno né le strutture logistiche, né i piloti abilitati. E così si ricorre, a caro prezzo, ai privati.

Solo nel famoso incendio di fine agosto a San Vito Lo Capo, facendo due conti, sono stati spesi 970.700 euro e per vedere bruciare comunque più di 3.000 ettari solo nella zona della riserva. Alcuni lanci, tra l’altro, non sono andati a buon fine – raccontano i testimoni – ma tutti sono certificati come “positivi”. Come mai?

La Sicilia brucia per una mano criminale, certo, ma anche per una combinazione di inadeguatezza, efficienza, e omissioni di tutti quegli enti che dovrebbero prevenire gli incendi, per carenze strutturali mai risolte.

Chi ci guadagna? «I vantaggi più immediati sono proprio per le società che gestiscono i Canadair – dice Mariangela Galante –. La prevenzione costerebbe molto di meno, e sarebbe molto più efficace».

Poi, si guarda sempre con sospetto a quella che impropriamente viene definita “mafia dei pascoli”, che brucia le aree boschive in modo da favorire le aree per il pascolo come le lottizzazioni. Attenzione però, per prevenire il fenomeno, la legge adesso impone il divieto di costruzione, di utilizzo per pascolo e per ogni attività, per dieci anni, nelle zone colpite da incendio. I comuni dovrebbero tenere un “catasto antincendio” con l’elenco dei terreni colpiti. Ma quasi nessuno lo fa. Morale: molti comuni rilasciano licenze edilizie in zone colpite da incendio, perché non curano quel catasto.

Dal corpo forestale della regione, un funzionario, chiedendo l’anonimato, avanza un sospetto: «C’è un disegno ben preciso, che è quello di far entrare i privati nella gestione di riserve, parchi e oasi. Ecco perché non si investe più nel personale o nei mezzi». E in effetti è un pullulare in Sicilia di associazioni di volontariato, che a poco poco stanno prendendo sempre più piede grazie a onerose convenzioni con i comuni per i servizi di vigilanza e antincendio. In pratica sta avvenendo quello che già accade con i Canadair: lo stato ha i mezzi, ma non è in grado di usarli, e si affida a caro prezzo ai privati.

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