«Non è solo un prete di strada, ma un prete del mondo». A respingere il ritratto del cardinale Matteo Maria Zuppi quale prete callejero è stato nel 2015 Andrea Riccardi, fondatore della Comunità sant’Egidio, ricordando il suo amico eletto arcivescovo metropolita di Bologna: «Molti si sono soffermati sull’immagine dei preti di strada. Secondo me hanno semplicemente la capacità di leggere il Vangelo fuori dalle chiese».

Sul tema è poi ritornato lo stesso Zuppi, divertito: «E per forza, mi dica lei dove altro dovrebbe stare, un prete, in salotto?». Eppure, tra le parole più spesso usate dalla stampa italiana per salutare la sua nomina alla presidenza dei vescovi italiani (Cei) ci sono: ultimi, strada, prete, don Matteo, titolo con cui, peraltro, è stato apostrofato dai giornalisti italiani alla conferenza stampa di ieri.

Ma oltre don Matteo, Zuppi resta uno dei cardinali italiani che ha più familiarità con l’ambiente vaticano, avendolo respirato già in famiglia: è pronipote del defunto cardinale Confalonieri e figlio di uno fra i più noti giornalisti vaticanisti dell’era conciliare.

La diplomazia dal basso

Eppure, cosa rende Zuppi così semplice fin dai primi anni del sacerdozio, come ricordava al Corriere della Sera il suo amico, monsignor Vincenzo Paglia? È dalla Comunità sant’Egidio che si deve partire, il luogo di Trastevere dove maturò la sua vocazione e compì i primi passi nel dialogo e l’assistenza agli ultimi, specialmente anziani e tossicodipendenti.

Non aveva neppure trent’anni quando, giovane viceparroco di santa Maria in Trastevere, fu intervistato al Tg1 alla vigilia della partenza di un carico di 44 tonnellate di prodotti alimentari per il Mozambico.

Come ricordò egli stesso, il suo approccio al continente africano venne da Giovanni Paolo II, il papa che a più riprese criticò gli effetti del capitalismo globale: erano gli anni dell’afropessimismo, quando le politiche neoliberiste ingabbiavano lo sviluppo del continente in un debito incolmabile, quasi sempre tradotto in conflitti civili, specialmente in Africa australe.

In questo solco s’inserì la Comunità di sant’Egidio, ribattezzata da Igor Man «l’Onu di Trastevere», e Zuppi divenne la punta di diamante della sua «diplomazia silenziosa».

Nel 2004, parlando degli accordi di pace di Roma al Messaggero di sant’Antonio, spiegò che il dialogo è una «dinamica complicata»: «Non basta parlare. Ma parlare è cercare una soluzione; è l'inizio della soluzione. Poi c'è una dinamica che si stabilisce. E, a un certo punto, comincia a esistere una complicità tra i negoziatori». 

Non si può capire l’approccio di Zuppi agli emarginati se non si considera questa «diplomazia dal basso» attuata negli anni della mediazione in Mozambico, che tesse relazioni partendo da ciò che unisce. Sul Fatto Quotidiano, Francesco Antonio Grana così lo ha descritto: «Il ritratto di Zuppi è semplice quanto la sua disarmante capacità di entrare in dialogo con tutti i suoi interlocutori, senza alcuna barriera

Il politico

Eppure, per quanto possa essere vasto, il mondo di Zuppi è fondamentalmente romano. Perché, se è vero che al titolo cardinalizio preferisce un semplice “don Matteo”, non è un outsider. Il suo mondo di riferimento ha le mura del liceo classico Virgilio, a via Giulia, dove ha intessuto le prime relazioni con personalità di spicco della società italiana, dal compianto David Sassoli allo stesso Riccardi, ex ministro del governo Monti, fino a Francesco De Gregori.

Fu anche coetaneo di Riccardo Di Segni, rabbino capo della comunità ebraica di Roma, che a Repubblica ha ricordato il «concetto di squadra» che li lega ai suoi compagni ancora oggi. Suo padre, Enrico Zuppi, è stato esponente di spicco del giornalismo vaticano negli anni a cavallo del Concilio vaticano II, guidando L’Osservatore della Domenica dal 1947 al 1979 e intrattenendo fitte relazioni con personalità eminenti come papa Paolo VI, Giuseppe Prezzolini e Raimondo Manzini, come mostrano i carteggi. 

Non stupisce, quindi, che con la sua presidenza alla Cei venga a consolidarsi anche un ruolo politico della chiesa italiana, sbiaditosi negli anni della presidenza Bassetti. Di «network di Sant’Egidio», per esempio, ha parlato Stefano Graziosi su La Verità, collegando la sua nomina all’endorsement al Quirinale di Andrea Riccardi da parte di Goffredo Bettini, fautore dell’alleanza tra Partito democratico e Movimento 5 Stelle: «Va da sé che il ruolo di presidente della Cei ha un carattere prevalentemente nazionale. Scegliere Zuppi (per cui il pontefice ha appositamente creato il titolo cardinalizio di Sant’ Egidio nel 2019) può però avere anche un risvolto geopolitico, perché significa rafforzare indirettamente un'organizzazione già di per sé influente».

Menzionando un amico del porporato, l’ex presidente del Consiglio democratico Romano Prodi, Concita de Gregorio su Repubblica ha scritto: «Una volta, parlando di politica, mi disse: “Ci sarebbe, a Bologna, un nome. Purtroppo è già impegnato a far da cardinale, forse più avanti il Papa”». 

Il giorno dopo, dalle stesse colonne, Michele Serra ha parlato di Zuppi come dell’ultimo esponente di quel cattolicesimo sociale che condanna il mercatismo, che in politica è, invece, visto come un anacronismo novecentesco: «Bisognerà pure che la sinistra laica (alla quale appartengo con convinzione) si domandi dove sono gli Zuppi senza tonaca, gli atei illuminati non da Dio, ma dal sentimento di fratellanza, i socialisti davvero convinti che "socialismo o barbarie” non sia uno slogan di ieri, ma una necessità futura, tanto da potersi affiancare ai preti di strada, e affrancare dal luogo comune sulla sinistra arroccata nelle ztl e nel Palazzo».

Il parroco di tutti

Non è a Roma ma a Bologna che si sedimenta il mito di don Matteo. Sgravatosi del ruolo di vescovo ausiliare troppo vicino alla curia, Zuppi si fa apprezzare per la sua vicinanza agli ultimi. In una delle città più ricche d’Italia, il porporato romano ha, così, scelto una pastorale della carità, facendosi prossimo ai disoccupati, come gli operai della Saeco, ed entrando in dialogo con i più ostili alla chiesa cattolica.

Parla del trinomio caro a papa Francesco tierra, techo y trabajo ai giovani del centro sociale Tpo: è la prima volta che un vescovo entra in un centro sociale, e questo gli attira le critiche dei conservatori, ma allarga anche il suo consenso tra i bolognesi.

Da una parte spiega la «necessità di dialogare e confrontarsi sempre, con ogni realtà del tessuto sociale», ribadendo comunque le «distanze su molti punti con i centri sociali», dall’altra è in disaccordo con chi lo critica: «Dalle nostre parti si dice che parlare, legittimare. È proprio l’idea dei farisei, che dicevano che Gesù si faceva pubblicano perché parlava con i pubblicani» spiega in un documentario a lui dedicato Il Vangelo secondo Matteo Z. Professione vescovo.

 A tre anni dal suo arrivo a Bologna, L’Espresso ne fa un ritratto compiuto: «Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna, è una di quelle rarissime persone dotate di un carisma vero, nel gergo di New York lo chiamerebbero “Mensch”, una parola che in yiddish significa “uomo”, e che viene usata per uomini e donne capaci di ascoltare allo stesso modo gli umili e i potenti e soprattutto di assumersi le responsabilità».

La città emiliana diventa, così, un laboratorio di quella che sarà la sua immagine del parroco di tutti, in dialogo con gli ultimi. Come il papa con Santa Marta, anche lui va a vivere nella casa del clero, non nell’arcivescovado, preferendo la compagnia degli anziani sacerdoti in pensione.

Va in Curia e per le strade di Bologna in bicicletta, e viene in mente l’immagine di Olinto Marella, il religioso dei poveri beatificato proprio a Bologna nel 2020. 

Matteo Matzuzzi sul Foglio ha scritto: «Fermarsi alla solita e un po’ stantia melassa sull’essere prete di strada e vicino agli ultimi (…) farebbe un torto prima di tutto a lui. Matteo Zuppi non è il curato d’Ars, non è in cerca di beatificazioni e canonizzazioni». Ciononostante, la realtà bolognese ha contribuito a fare di Zuppi quel cardinale un po’ don che piace a tutti.

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